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venerdì, Aprile 19, 2024

    Ettore Grande: Diplomatico uxoricida?

    Prima puntata

    archeo-noir

    Ettore Grande venne accusato di aver ucciso la moglie, Vincenzina Virando: un omicidio di cui non vi fu alcuna avvisaglia e quindi doppiamente misterioso. Un mistero che certo fu avvertito anche dai giudici, visto che dal primo processo all’ultimo trascorsero cinque anni (1941-1946).

    Ma per conoscere meglio la vicenda dobbiamo ritornare indietro ancora di qualche anno, fino al 1938. Allora Ettore Grande era un giovane e brillante diplomatico: a soli ventotto anni fu inviato in Thailandia, presso l’ambasciata italiana a Bangkok. Così Buzzati: “Aprite un atlante. Troverete in principio la doppia pagina coi due emisferi. Noi ci troviamo in quella di sinistra, in quella minuscola linguetta di terra che porta il nome di Italia. Ebbene, nel centro dell’altro emisfero, da quelle inverosimili plaghe che spesso stentiamo a credere vere, proprio da quel mondo sconosciuto e quasi teorico, il dramma era giunto fino a noi. E qui si era come rinnovato, complicandosi in un groviglio di passioni e di odi. Che storia stupenda. C’era alla base una favola d’amore, una giovane donna graziosa (che poi i disegnatori popolari trasformeranno in una specie di dea), c’era un uomo pure giovane, bello d’aspetto, elegante, di intrepido carattere e spaziosi sogni, c’era da principio lo sfondo aristocratico e gozzaniano di Torino, così propizio agli amori di buona famiglia, c’era l’atmosfera affascinante della diplomazia, e poi il lunghissimo viaggio verso un paese esotico e misterioso dove già pareva prepararsi un oscuro destino” (“Corriere d’informazione”, 15 novembre 1946).

    Concedendo ampi spazi all’imprinting letterario, Buzzati è riuscito a tratteggiare il preludio di una tragedia iniziata con i toni della bella fiaba, il cui incipit va posto nel matrimonio tra Vincenzina ed Ettore, celebrato qualche giorno prima della partenza per quel lontano mondo orientale. Lei aveva appena ventidue anni, era figlia di un gioielliere torinese e forse non ebbe il tempo, travolta dagli avvenimenti, di pensare a quali effetti avrebbe avuto l’esperienza di vita laggiù, in Estremo Oriente, lontano, tanto lontano dalle atmosfere subalpine. È quindi probabile che a Bangkok rimpiangesse la sua città, i suoi affetti, le sue abitudini: era servita e riverita da quattro camerieri indigeni chiamati, con un pizzico di snobismo, boys, ma di certo tutto ciò non le bastava per farla sentire a proprio agio. Però non dimostrò mai alcun malessere, quantomeno non ne fece parola con alcuno.

    Le sue lettere erano sempre molto pacate, colme di belle parole. Insomma sembrava felice. Eppure appena due mesi dopo il suo matrimonio, verso la fine di settembre 1938, un titolo su “La Gazzetta del Popolo” di Torino fu l’incipit di una vicenda che per alcuni anni divenne di grande attualità: “Tragica fine della moglie di un diplomatico italiano”. Era ancora una di quelle notizie che in gergo giornalistico si chiamano “brevi”: poche righe che spesso non hanno storia, mentre in altri casi sono destinate a svilupparsi nel corso dei giorni successivi fino ad occupare sei o nove colonne, spesso acquisendo il diritto di accedere alla prima pagina.

    E così fu.

    In Italia la notizia venne pubblicata alcuni giorni dopo l’evento: via via si veniva a sapere che il tragico fatto risaliva al 23 novembre. Secondo la prima versione, quella fornita dalla polizia tailandese, alle 7,15, ora locale, la signora si sarebbe sparata, mentre il marito era sotto la doccia.

    Al suo ritorno, all’uomo non restò altro da fare che constatare la morte della moglie. La tesi del suicidio fu quella riconosciuta come ufficiale: e così il corpo della donna venne trattato chimicamente al fine di produrre una sorta di imbalsamazione e poi imbarcato per l’Italia.

    Giunto a Torino, il cadavere fu trasferito a Viù, paese montano delle Valli di Lanzo, dove i Virando disponevano di una tomba di famiglia.

    A questo punto la storia poteva anche terminare. Però, per i parenti e gli amici, c’era qualcosa che non tornava: chi conosceva bene Vincenzina sapeva del suo amore per la vita, ricordava il suo carattere appassionato, i suoi tanti interessi.

    A poco a poco si insinuò il sospetto che forse la tesi del suicidio era stata troppo frettolosa…

    All’inizio del 1938 l’inchiesta fu riaperta, o meglio aperta per la prima volta in Italia; la salma venne riesumata.

    L’operazione non fu senza effetti: infatti i periti incaricati di analizzare il cadavere individuarono un foro di proiettile nel cranio sfuggito agli investigatori orientali. Quel foro era collocato in una posizione anomala per un suicidio, quindi è facile immaginare quali furono le conclusioni. Ettore Grande venne accusato di uxoricidio e arrestato.

    Per circa due anni le indagini non condussero ad alcuna soluzione definitiva e in ragione di tale situazione, Grande continuò ad essere il primo e l’unico accusato.

    La macchina burocratica si muoveva con una certa lentezza, anche in ragione della guerra che martoriava il Paese. Finalmente, nel 1941, si arrivò al dibattimento; il processo di fatto si concluse come molti avevano previsto: Ettore Grande fu riconosciuto colpevole dell’omicidio della moglie e condannato a ventiquattro anni di carcere.

    Ma quella condanna non solo pareva ingiusta alla difesa, ma fu ritenuta troppo mite all’accusa, che ricorse in Cassazione.

    E così, mentre una parte dell’Italia parlava di errore giudiziario, di condanna ingiusta, c’era un’altra parte che considerava pochi gli anni di condanna, frutto forse di una sorta di riverenza nei confronti di un imputato autorevole.

    Insomma ognuno diceva la sua, erigendosi a giudice ed esperto: niente di nuovo sotto il sole.

    Al centro della problematica vicenda, le parole del medico che per primo giunse sul luogo in cui giaceva Vincenzina: era un tedesco e non era legato da alcun rapporto di amicizia con l’imputato. Il dottore non ebbe alcun dubbio nel dichiarare che la donna si era suicidata: fu un’analisi troppo affettata?

    Il medico non osservò il cadavere con la dovuta attenzione?

    Tralasciò delle tracce importanti?

    Forse. Infatti la Cassazione annullò la sentenza torinese e dispose un nuovo processo: in pratica accusa e difesa si sentirono soddisfatte, anche se per l’imputato aveva inizio un altro lungo periodo dominato dall’ansia e dall’incertezza.

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