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martedì, Marzo 19, 2024

    Il “Canto degli Italiani” è torinese

    L’altro giorno camminavo a passo rapido nel centro storico cittadino. Nel punto in cui l’angusta via Barbaroux si allarga e per qualche decina di metri si arricchisce di portici e si immette in Via Pietro Micca, alzai casualmente gli occhi verso gli ammezzati e, di lato all’insegna di una Tabaccheria, vidi la targa. “Qui – diceva – nel 1847 il Maestro Michele Novaro divinava le note al fatidico inno di Goffredo Mameli…”

    È vero, pensai: è qui, proprio qui, che è nato l’Inno. Una storia di giovani, una storia di ragazzi. Goffredo Mameli,  studente ventenne quando scrisse l’inno denominandolo “Canto degli Italiani”, e Michele Novaro, musicista, solo di poco più vecchio, erano entrambi genovesi e amici fraterni, Mameli di nobile e avita famiglia, Novaro ragazzo del popolo, ma uniti dai brucianti ideali mazziniani. Il primo avrebbe perso la vita di lì a poco, appena ventiduenne, durante la difesa della Repubblica Romana, mentre l’altro, trasferitosi da Genova a Torino nella speranza di trovare un posto di lavoro, lo avrebbe ottenuto come Maestro del Coro del Teatro Regio.

    Nell’autunno del 1847 già bolllivano in pentola i prodromi di quello che sarebbe poi diventato il “Quarantotto”, e Mameli, a Genova, scrisse di getto le sei strofe dell’Inno a sostegno dei moti locali. A novembre, tramite un comune amico, inviò il testo a Novaro chiedendogli di musicarlo, evitando però di utilizzare temi già esistenti. Novaro accolse l’invito con entusiasmo: quando gli giunse il testo si trovava in casa del patriota Lorenzo Valerio, nell’attuale via XX settembre, e, conquistato dalle parole, cominciò a tratteggiarne al pianorforte le linee essenziali, senza però trovare il giusto climax. “Scontento di me – disse poi – mi trattenni ancora un po’ in casa Valerio, ma poi, sempre con quei versi nella mente, presi congedo e corsi a casa [in Via Barbaroux] e là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte: lo scrissi su un foglio di carta, il primo che mi venne nelle mani, e nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e sul povero foglio…”

    È da notare che nella versione originale il testo iniziava con “Evviva l’Italia” poi mutato in “Fratelli d’Italia” proprio da Novaro, che aggiunse anche un reboante “sì!” alla fine del ritornello.

    Il debutto ufficiale dell’inno avvenne a dicembre, nei quartieri genovesi Oregina e Portoria, ma già prima, a Torino, “da molte sere numerosa gioventù si aduna nel locale dell’Accademia Filodrammatica a cantare un Inno all’Italia, la poesia è piena di fuoco, la musica vi corrisponde pienamente” (da un giornale di Pisa, 18/12/1847). Essendo gli autori notoriamente mazziniani, subentrò il divieto all’esecuzione, che durò fino al marzo 1848, quando fu emanato lo Statuto; a quel punto l’Inno, edito dallo stampatore Magrini di Torino, era già straripato in tutt’Italia. Quei momenti arroventati richiedevano proprio una musica come quella, facile, impetuosa, orecchiabile. Non che all’epoca mancassero canti ed inni, anzi non c’era altro, ma questo incontrò una popolarità travolgente; cantato e suonato a Venezia durante l’assedio, a Milano durante le Cinque Giornate, a Roma durante la Repubblica Romana, diventò il vero simbolo del Risorgimento, e la precoce, fatale morte dell’autore dei versi gli fece da ulteriore cassa di risonanza. Strano a dirsi, in tanto entusiasmo il solo a cui non piacque fu Mazzini!

    Meno eroica di Mameli fu la vita di Novaro. Forse per la sua indole modesta, non trasse vantaggi economici dalla notorietà della composizione. Pose il suo talento al servizio della causa ed a titolo gratuito compose in gran numero marce e cori, pur senza ritrovare il “momento magico” di quel primo inno in si bemolle. Vide realizzarsi l’Italia unita e morì nel 1885 a Genova, in povertà.

    Quando nel 1862, in occasione dell’ Esposizione Universale, Giuseppe Verdi fu invitato a Londra per comporre un pezzo d’occasione, scrisse un singolare “Inno delle Nazioni” in cui venivano citati tre inni, inglese, francese e italiano. Per l’Italia scelse “Fratelli d’Italia” (autorevole prova che non tutti gli italiani si riconoscevano nell’insulsa “Marcia Reale” prescelta come inno nazionale). All’epoca solo l’inno inglese era un vero “inno nazionale”, perché anche la “Marsigliese” scelta da Verdi a rappresentare la Francia, non era l’inno della Francia. L’entusiasmo suscitato a Londra da “Fratelli d’Italia” fu enorme, tutti lo cantavano!

    Infatti nemmeno dopo l’Unità il “Canto degli Italiani” perse di smalto, anzi continuò ad essere amato a ogni livello, sia popolare che di élite. Poco apprezzato dall’Italia monarchica e inviso al fascismo, riuscì a superare senza obblio centosessant’anni di vita e, dopo alcuni decenni di “supplenza”, fu finalmente riconosciuto (4/12/2017) Inno ufficiale della Repubblica Italiana. Che sia nato qui, nella nostra Torino, non è noto a tutti, e mi è piaciuto poterlo ricordare. 

     

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    Luisa Forlano
    Luisa Forlano
    Luisa Camilla Forlano è nata a Boscomarengo, in provincia di Alessandria, e vive a Torino. Oltre all’amore per la Musica coltiva assiduamente quello per la Storia, in particolare per l’antichità classica, ma anche per i secoli a noi più vicini, quelli della rinascita della ragione. Ed è stato nel desiderio di far rivivere alcuni momenti storici cruciali che si è affacciata al mondo della narrativa: nel 2007 col suo primo romanzo “Un punto fra due eternità”, un inquietante amore ai tempi del Re Sole; e poi con “Come spie degli dèi” (2010), che conserva un aggancio ideale col precedente in quanto mette in scena le vicende dei lontani discendenti del protagonista del primo romanzo. In entrambe le narrazioni la scrupolosa ricostruzione storica costituisce il fil rouge da cui si dipanano appassionanti vicende umane, fra loro differenti, ma fortemente radicate nella realtà storica del momento.

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