Caselle sul filo di seta

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il “baratrone”, ossia il motore del filatoio, generalmente posto nel piano sotterraneo, che con una serie di ingranaggi trasmetteva ai macchinari soprastanti il moto della ruota idraulica.

StorieNostreWeb_ColombattoCome già visto in precedenti articoli, tra i numerosi edifici idraulici presenti sul territorio nei secoli passati, un posto importante per l’economia casellese lo hanno avuto i filatoi da seta, soprattutto tra il secolo XVIII e XIX.
All’inizio del XVII secolo l’industria piemontese, in parte distrutta dalle numerose guerre, aveva portato il territorio ad una economia essenzialmente agricola, con la produzione di prodotti finiti, come le stoffe, frutto di laboratori essenzialmente artigianali.

Spinti dall’assolutismo riformatore sabaudo, che cercava di ricostruire l’economia torinese, nel campo della filatura della seta un decisivo impulso alla trasformazione in senso “industriale” della produzione venne perseguito dalla politica di Vittorio Amedeo II, in parte già anticipata dal suo predecessore Carlo Emanuele II.

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Ricostruzione di una macchina di trattura settecentesca con bacinella a fuoco diretto con incrocio alla piemontese per ottenere due matasse per volta di seta grezza.

All’inizio del XVII secolo nel territorio sabaudo venivano effettuate solo le prime operazioni di lavorazione della seta (trattura e torcitura) per essere poi trasformata in semigreggia, esportata e reintrodotta dall’estero come tessuto.

Con Vittorio Amedeo II non solo si incrementarono le filature per la trasformazione in seta greggia ed i filatoi per le trame e gli organzini, ma si compì anche un tentativo per costruire impianti per la lavorazione in stoffa.

Vennero emanati numerosi editti. Uno del 20 dicembre 1683 voleva favorire le attività manifatturiere, un secondo dell’8 giugno 1698 proibiva l’esportazione delle sete grezze dal Piemonte e un terzo del 28 aprile 1701 invitava mercanti e “artisti” stranieri a venire in Piemonte quali maestri, promettendo loro molti privilegi.1

Grazie a questa politica rapidamente in tutto il Torinese iniziarono ad impiantarsi, a partire dalla fine del XVII secolo, numerosi filature e filatoi con caratteristiche “industriali”, prima fra tutte quella di Venaria Reale, già attiva nel 1670.

La seta, soprattutto la produzione della seta grezza e dei filati, diventò una attività importante per il Regno Sabaudo, e talmente prestigiosa che dalla fine del ‘600, fino alla metà dell’800, la seta piemontese veniva considerata la migliore al mondo.

 

I setifici casellesi

Caselle non fu tra i primi comuni del torinese a impiantare filatoio, che si svilupparono soprattutto nel territorio a sud di Torino, in particolare a Racconigi che all’inizio del ‘700 produceva da sola circa un terzo dei filati piemontesi, e alla fine del XVIII secolo vedeva l’attività di ben 33 filatoi.

disegno della fine del 700 in cui si vede come veniva utilizzata la macchina di trattura.

Dei quasi trenta edifici idraulici, quasi tutti nati come battitoi da carta, presenti sul territorio casellese nel XVI secolo, alla fine del ‘600, a seguito delle guerre e delle epidemie, ne risultavano solo più sette in attività, mentre altri erano censiti nei “consegnamenti” dell’epoca come salti d’acqua “ruinati”.

Fra tutti questi uno di essi posto appena fuori dell’abitato, dove oggi vi è la piazza del mercato intitolata a Giovanni Falcone, venne recuperato nel 1708 dal banchiere Antonio Pignatta per impiantarvi un filatoio, che diventò in seguito uno dei due setifici più importanti di Caselle, denominato “Filatoio Motu”, dal nome del suo proprietario ottocentesco.

ricostruzione di un incannatoio.

Nel 1746 la lavorazione della seta era già un settore importante per l’economia casellese e, come risulta dai registri catastali, contava 4 filatoi e 2 filature, tutti impiantati su precedenti salti d’acqua abbandonati:

1° filatoio del Sig. Raffagnotto Giacomo Antonio;
2° filatoio e filatura del banchiere Cucha Giambattista;
3° filatoio e filatura del banchiere Pignatta Antonio;
4° filatoio del sig. Lazaro Pietro Paolo.

Nei decenni successivi gli stabilimenti si svilupparono ulteriormente e nel 1777, da una relazione dell’intendente Sicco, risultavano 7 filatoi e 4 filature:

1° filatoio degli eredi Battaglia Domenico di tre piante2;
2° filatoio e filatura del Conte Fontanella di Baldissaro di dodici piante e 60 fornelletti3;
3° filatoio e filatura del banchiere Masino Giacinto di nove piante e 70 fornelletti;
4° filatoio della vedova Massa Vittoria di tre piante;
5° filatoio di Scotto Caterina di sei piante;
6° filatoio di Scotto Carlo di una pianta;
7° filatoio e filatura di Gonella di due piante e 15 fornelletti;
8° filatura di Moidi di 15 fornelletti.

Attività che occupavano in tutto ben 996 persone, un bel numero tenendo conto che Caselle all’epoca contava circa 2.700 abitanti.

 

La crisi della fine del ‘700

Tutte le macchine di questi setifici erano messe in moto dalla forza idraulica e quindi nel periodo invernale normalmente erano ferme per la mancanza di acqua nelle bealere ma il problema più grande era la disponibilità della materia prima, i cosiddetti “cochetti”, ossia i bozzoli dei bachi da seta, che dipendeva molto dagli andamenti stagionali.

ricostruzione di un binatoio.

I mancati raccolti dal 1787 al 1792, quando il gelo distrusse la foglia dei gelsi, provocando la quasi totale mancanza di bozzoli, provocò gravi disagi e la chiusura di molte di esse.

In una relazione del 1787 del comune di Caselle all’Intendenza generale, si rileva che in quell’anno solo due filatoi erano in attività, quello del Conte Fontanella che rilevava un calo dell’attività di tre quinti, e l’altro quello Bernardino Biffignandi che occupava 45 persone, ma che nel prossimo gennaio avrebbe probabilmente cessati l’attività per mancanza di seta grezza.

Ma il periodo successivo, che andò dal 1798 al 1814, fu addirittura disastroso per l’industria serica piemontese, a causa dell’occupazione francese che provocava continui passaggi di truppe e soprattutto la scarsità di mano d’opera maschile che causò l’abbandono di molte coltivazioni, tra cui quella del gelso.

particolare degli alberi di trasmissione che dai sotterranei portavano il moto agli incannatoi e binatoi.

Inoltre i Francesi avevano tutto l’interesse ad affossare l’industria serica sabauda per favorire la loro, che in effetti in breve tempo sul mercato di Lione presero il sopravvento sul mercato dei filati lavorati che fino ad allora erano quasi un monopolio goduto dal Piemonte.

Il governo francese cercò invece di sviluppare la produzione di seta grezza per poterla esportare in Francia, dove le industrie necessitavano sempre più di grandi quantità di materia prima.

 

La ripresa ottocentesca

Dopo la dominazione francese il governo Sabaudo riprese in mano lo sviluppo dell’industria serica e anche tutti i setifici casellesi ripresero l’attività, anche se con nuovi proprietari:

1° filatoio e filatura di Moto Michele;
2° filatoio e filatura di Duprè Giuseppe;
3° filatoio del Conte Barel di Sant’Albano;
4° e 5° due filatoi dei fratelli Goma;
6° filatoio di Graglia Giovanni;
7° filatoio della vedova Rosso Vincenza.

Che occupavano in tutto 935 addetti, riportandosi alle attività di fine settecento.

ricostruzione della grande e complessa macchina per la filatura di tipo piemontese definita “pianta”.

L’attività dei setifici era sempre sotto lo stretto controllo del governo centrale, che quasi annualmente mandava i suoi intendenti per verificare la produzione, la qualità della lavorazione, e la rispondenza alle norme dei prodotti e del sistema produttivo.

Nella visita del 17 agosto 1815, compiuta dal funzionario Trombetta vennero controllati tutti i macchinari di tutti i filatoi, se erano costruiti secondo tutte le regole prescritte, se perfettamente funzionanti e se la qualità del prodotto finito corrispondesse alla normativa.

Come già visto gli edifici per la produzione dei filati serici, erano essenzialmente divisi in due principali attività, la filatura, che era l’edificio destinato alla prima lavorazione del filo da seta (detta trattura), che partendo dal bozzolo si ricavava la matassa del filo grezzo, ed il filatoio che era destinato alla lavorazione successiva per ottenere, mediante torcitura e accoppiamento, il filato finale pronto per la tessitura.

 

La filatura

I macchinari utilizzati nella filatura, detti di “trattura”, erano dei telai in legno, relativamente semplici, che da un lato avevano un arcolaio verticale per l’avvolgimento della seta, e dall’altra parte i cosiddetti “fornelletti”, che erano delle bacinelle piene di acqua, riscaldate dal fuoco sottostante, in cui venivano immersi i bozzoli per facilitare lo scioglimento del collante del bozzolo e permettere lo svolgimento dello stesso.

particolare dei rocchetti montati sulla pianta con gli elementi metallici che permettevano la torcitura del filo.

Un’addetta “tirava” questi fili dei singoli bozzoli (la singola “bava” del bozzolo che è troppo fine per essere utilizzato) e li univa con altri sei o sette, in un sol filo sfruttando il collante residue del bozzolo, ottenendo un filo grezzo utilizzabile.

L’arcolaio era invece azionato a mano o con i piedi, a secondo del tipo, da un secondo addetto che doveva seguire chi filava mantenendo sempre la giusta tensione del filo.

Il numero dei fornelletti definiva la grandezza dell’impianto ed era anche la base per l’imposizione fiscale del tempo.

Questi edifici, normalmente grandi tettoie aperte per permettere una grande aerazione del luogo di lavoro, erano costruiti vicino ai canali per utilizzare l’acqua per le vasche di trattura (i fornelletti) che anticamente erano riscaldate direttamente con fuoco a legna, mentre nell’Ottocento vennero riscaldate a vapore per garantire un maggior controllo della temperatura.

Ogni macchina impiegava due lavoranti, svolto principalmente da giovani donne e da bambine, che venivano chiamate filerine, o filandere, con turni di lavoro molto pesanti da 12 a 16 ore.

Inutile ricordare che il lavoro era faticoso e soprattutto malsano per via dei vapori delle vasche e delle mani tenute nell’acqua calda (fino a 80 gradi), senza considerare le polveri respirate.

Il filatoio

I fabbricati destinati per il filatoio erano in genere grandi edifici, a più piani, dai soffitti alti e con grandi finestre per garantire una buona illuminazione, indispensabile per garantire una buona qualità nella lavorazione che dal filo grezzo portava al filato finale, di cui l’organzino era quello ottenuto con le sete grezze di migliore qualità.

altro particolare della pianta.

Come prima lavorazione la matassa di seta grezza veniva passata all’incannatoio, macchina che aveva lo scopo di avvolgere su rocchetti (incannare) il singolo filo, in seguito i rocchetti passavano al binatoio che serviva per accoppiare due o più fili in un unico rocchetto.

Le macchine, sempre mosse dalla forza idraulica, giravano su un unico asse numerosi rocchetti in modo automatico, e la difficoltà dell’addetto era di controllare le rotture dei fili fermando tempestivamente il macchinario e riannodare i fili. Nel binatoio questo controllo era particolarmente importante, perché se si rompeva un filo il rocchetto continuava ad avvolgersi con un solo filo, rendendo la bobina finale di scarto.

Il macchinario principale e più importante della filatura era la cosiddetta “pianta”, vero e proprio cuore del filatoio.

In pratica erano delle torri di legno alte come una casa di due piani, con una sorta di gabbia girevole composta da un’innumerevole serie di rotismi, ingranaggi, leve e tiranti che, traendo il moto dalle due ruote idrauliche poste nei sotterranei detti “baratroni”, permettevano a centinaia di fusi ed aspi di arrotolare e ritorcere il filo di seta, ottenendo il filato pronto per la tessitura.

La complessità del meccanismo era notevole, e anche qui la difficoltà degli addetti era far si che i fili, nel caso si rompessero, venissero riannodati velocemente per non far fermare le macchine, inoltre i meccanismi erano soggetti a grande usura e rotture continue, tanto che uno degli addetti principali dei filatoi era il falegname che con la sua presenza costante permetteva di riparare velocemente le macchine.

Questo sofisticato macchinario nel Piemonte subì continue migliorie, tanto che la “pianta” piemontese diventò alla fine del ‘700 la migliore esistente, e rinomata in tutto il mondo.

 

Lo spionaggio industriale

Lo spionaggio industriale è sempre stato un problema fin dall’antichità, e l’importante produzione e lavorazione della seta, in particolare, è stata oggetto di diversi colpi magistrali di spionaggio economico, a partire dal VI secolo, quando, secondo il racconto di Procopio di Cesarea, nel 552 d.C. due astuti monaci di San Basilio su richiesta dell’imperatore Giustiniano, carpirono in Cina il segreto dalla seta e dell’allevamento del baco nascondendo le uova del favoloso insetto in due bastoni di bambù.

Successivamente i casi di spionaggio economico sulla seta si moltiplicarono,

Tra XV e XVIII secolo Bologna si affermò in Europa nella produzione di filati e veli di seta; alla base di tale successo era la complessità della tecnologia tessile adoperata, tra i cui spiccava il grande mulino da seta “alla bolognese” che meccanizzando il processo di incannatura e torcitura del filo di seta lo rendeva più robusto e pregiato.

il “baratrone”, ossia il motore del filatoio, generalmente posto nel piano sotterraneo, che con una serie di ingranaggi trasmetteva ai macchinari soprastanti il moto della ruota idraulica.

Tale mulino, alimentato da ruota idraulica, è oggi considerato come la più alta tecnologia conosciuta in Europa prima della macchina a vapore e anticipa il sistema di fabbrica della Rivoluzione Industriale.

I suoi segreti, celati all’interno di private abitazioni inaccessibili agli stranieri, furono al centro di una vera e propria rete di spionaggio industriale che il governo cittadino contrastò con una durissima legislazione che prevedeva persino la pena di morte per i “traditori della patria”.

Nonostante questo gli interessi erano alti, e così un marchese torinese, intenzionato a costruire un «edificio da seta», a metà ‘600 chiede a Giovanni Battista Sicca, trasferitosi a Parma come medico della principessa Margherita e sorella del duca Carlo Emanuele II, d’inviargli un filatore provetto ed altri esperti nella costruzione di mulini e nella lavorazione della seta.

In seguito, grazie ai numerosi “benefit” concessi dal Duca, eludendo il protezionismo bolognese, numerosi tecnici arrivarono a Torino per costruire i mulini da seta, e così gli organzini prodotti in Piemonte, di lì a poco avrebbero invaso i mercati europei.

Queste macchine nel tempo vennero ulteriormente migliorate, tanto che a fine ‘700 nella famosa “Encyclopédie” di Diderot alla voce setifici, viene esaltato il “moulin du Piémont”.

A questo punto erano però gli altri paesi europei che, riconoscendone il primato, promuovevano attività di spionaggio industriale per cercare di carpire i segreti dei filatoi “alla piemontese”.

É nota la vicenda dell’inglese Sir John Lombe, il quale all’inizio del ‘700 compì un viaggio in Italia, e in particolare in Piemonte dove, camuffato da operaio, si introdusse in un setificio piemontese per rubare il segreto dei mulini per la seta con cui si torcevano in maniera eccellente gli organzini.

Nel 1717 John Lombe, con il fratello Thomas, costruì a Derby un grande opificio con torcitoi della seta alla piemontese: la reazione dei Piemontesi fu violenta e si narra persino di una spedizione punitiva in cui John venne assassinato (1727), pare con un veleno somministratogli da una donna che aveva conosciuto in Italia.


1 G. QUAZZA, le riforme in Piemonte nella prima metà del 1700, Modena, 1957; p. 245.

2 La cosidetta “piante” era il complesso macchinario, mosso dalla ruota idraulica, per la lavorazione finale del filo.

3 Il “fornelletto” era la bacinella riscaldata dal fuoco sottostante, in cui venivano immersi i bozzoli per facilitarne lo svolgimento.

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