Francesco Armeno si era alzato presto. Era un po’ nervoso e preoccupato. Il gran giorno era arrivato: avrebbe iniziato a lavorare nella grande fabbrica della Singer di Leini.
Gerardo, il capofamiglia della famiglia che lo ospitava, era stato perentorio la sera prima: “Domani bisogna alzarsi presto, alle 7,15 già suona la campanella. A quell’ora bisogna già essere pronti al proprio posto di lavoro per iniziare la giornata alla catena di montaggio.
Tu dovrai aspettare l’arrivo degli impiegati per espletare le pratiche per l’assunzione.”
Ora era qui, davanti ai cancelli in attesa.
Era un freddo mattino di febbraio del 1971, qua e là c’erano mucchi di neve. Gli operai arrivavano alla spicciolata stretti nei loro caldi giacconi: uomini, donne, ragazzi giovani, evidentemente freschi di nomina. Intere famiglie arrivavano in auto e rapidamente varcavano il grande cancello.
A mano a mano che si avvicinava l’ora di inizio del lavoro, il fiume del personale si ingrossava. Alcuni portavano con sé una robusta borsa di cuoio da cui spuntava il collo di una bottiglia. “É il “barracchino”, gli dissero,” il pranzo di mezzogiorno. Lo portano quelli che non mangiano in mensa.”
Il fiume degli operai sembrava senza fine. “Ci lavorano circa 2000 operai”, gli disse un sorvegliante.
Davvero una grande fabbrica.
Un certo batticuore prese il sopravvento. Sarebbe stato all’altezza del compito? Certo, aveva già lavorato in officine di piccole dimensioni. Successivamente era stato imbarcato sulle navi della marina militare. Un mondo affascinante e faticoso che gli aveva regalato soddisfazioni ed esperienze di vita preziose.
Ora era tutto diverso. C’era da affrontare un mondo completamente nuovo di cui non conosceva sostanzialmente nulla. Alcuni suoi conoscenti, che avevano già lavorato in fabbriche simili, gli avevano detto: “La catena di montaggio è un incubo, è impietosa. Le macchine da montare arrivano una dietro l’altra, tecnicamente il lavoro è semplice ma bisogna essere rapidi e precisi, si fanno sempre gli stessi gesti.”
Decise che non avrebbe dovuto preoccuparsi. Aveva già maturato svariate esperienze: lo avrebbero aiutato a risolvere i problemi. Strinse i pugni. Questo era un impiego necessario. Doveva riuscire. Un fallimento non era accettabile.
C’era una famiglia “giù” che aspettava fiduciosa. Attendevano la chiamata per iniziare una nuova vita che li affrancasse dalla miseria.
Una voce lo chiamò:” Francesco Armeno è lei? Si accomodi in ufficio, l’attendono per le pratiche”.
Tirò un profondo sospiro e si incamminò.
L’iter si svolse in modo preciso e rapido.
Poi fu accompagnato nel reparto dove era stato assegnato: il comparto lavatrici.
Il dirigente che aveva firmato la pratica gli aveva detto: “Abbiamo letto che lei era meccanico sulle navi della marina, quindi ha già una certa pratica di cose di tecniche, per questo motivo l’assegniamo al reparto collaudo lavatrici, dove conoscenze tecniche sono le benvenute”. Un addetto al reparto lo accolse con un sorriso di circostanza e subito lo accompagnò alla sua postazione di lavoro.
Le operazioni da compiere sulle macchine erano semplici: nulla di complicato si trattava solo di controllare che alcune delle funzioni delle lavatrici, che scorrevano rapide sulla catena di montaggio, fossero corrette.
Imparò rapidamente, ora si trattava di acquisire il ritmo.
Dopo un po’ si presentò un uomo in camice nero. Era il caporeparto, il signor Coscia. Costui era un bell’uomo giovane e, come avrebbe verificato successivamente, molto ambizioso. Senza troppi fronzoli lo accolse ufficialmente nel reparto e gli disse: “Mi hanno detto che lei ha già delle esperienze alle spalle. Saranno utili a noi e a lei. Nel nostro reparto serve gente preparata e che ci dia dentro. Buon lavoro”. Tutto qui. Tutto molto freddo.
Ben presto si accorse che gli altri addetti, oramai esperti, erano pronti a dargli una mano e gli consigliavano certi trucchetti utili a star dietro al ritmo incalzante.
C’era la signora Maria che gli diceva: “Francesco non ti preoccupare, ho visto che sei preciso. Devi solo prendere il ritmo giusto. Diventerai bravo.”
Parole che rincuoravano.
C’era anche un uomo che si chiamava Poloni che, come dicono i piemontesi “è da sposare” uno scapolone.
Un tipo un po’ svampito, ma simpatico e aperto. Quando vedeva Francesco in difficoltà accorreva a dargli una mano. Spesso durante le pause lo raggiungeva per chiacchierare con lui, essendo un uomo curioso. Avendo saputo che era di Napoli gli chiedeva di raccontargli della sua città. Gli diceva: “Sai Francesco, io avrei voluto viaggiare molto; amo conoscere gente nuova e altri luoghi. Non ho mai potuto farlo perché ho i genitori da mantenere. Ecco perché non mi sono sposato. Approfitto, quando incontro persone disponibili come te, chiedendo loro di parlarmi della loro città. É un modo di viaggiare”.
In fabbrica c’erano persone di ogni dove e di ogni orientamento. Imparò subito che queste differenze non erano un ostacolo alla solidarietà e all’amicizia.
Si era tutti nella stessa barca.
Era una lezione che non avrebbe mai dimenticato. La fabbrica è certamente un luogo dove si lavora, ma è anche un potente strumento di integrazione e luogo in cui attraverso lo scambio di esperienze e dalla condivisione delle stesse condizioni di vita si realizzano rapporti umani veri.
Gli stereotipi e pregiudizi che spesso condizionano i nostri giudizi sugli altri vengono superati perché l’altro non è più un nemico ma appare per quello che è: un nostro simile.
Ben presto si ambientò al clima frenetico dello stabilimento.
Anche se, all’apparenza, sembrava un luogo in preda alla schizofrenia: chi andava, chi veniva, chi faceva cose apparentemente inutili, chi urlava “fai attenzione a quello che fai”, l’attività era minuziosamente organizzata e finalizzata a realizzare gli obiettivi per cui lo stabilimento lavorava: costruire lavatrici e frigoriferi.
Lo stabilimento era costituito da un unico enorme capannone più la mensa ed il corpo separato degli uffici.
Nel capannone si trovavano tutte le attività produttive: due linee di frigoriferi, una per le lavatrici, stampaggio lamiere, verniciatura e tante altre attività minori ma necessarie.
Assomigliava ad un enorme organismo che, fino a che non suonava la campanella che dava il segnale di inizio lavoro, era silente e sonnacchioso. E d’improvviso, allo scoccare del segnale, si risvegliava come se fosse stato un gigante addormentato e, immediatamente, il frastuono del lavoro prendeva il sopravvento. Gli uomini e le donne impegnati alle linee iniziavano ad ingaggiare una lotta con il fiume di macchine da montare. Sembrava un formichiere frenetico.
La fabbrica fordista diventava un organismo vivo.
Ora che Francesco si stava ambientando e cominciava a muoversi con abilità, si rese che quello era un mondo da scoprire e conoscere.
Ed è quello che si promise di fare.
(Continua)