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lunedì, Settembre 9, 2024

    Sembra d’essere dentro a un film

     

    VenticinqueGocce2WebQualche titolo di pellicole che trattano il genere virus, pandemia, sfiga immensa: “Resident evil”, “L’esercito delle 12 scimmie”, “Contagion”, “Io sono leggenda”, “La città verrà”, “Distrutta all’alba”, “L’alba del pianeta delle scimmie”…

    Volendo potrei aggiungere World War Z, quello con Brad Pitt: bello e carico d’azione, certo lui il nemico lo vedeva, erano zombie, cattivi e sanguinari. Potrei infilarci anche la peste di manzoniana memoria de “I promessi sposi.

    In questi giorni è uscito l’ultimo della serie: Covid 19, in 3-D.

    Solo che non è un film. Non usciamo dalle sale dopo una sorta di catarsi benefica, non torniamo a casa sereni. E siamo circondati, impotenti: è qualcosa che ci batte in testa continuamente, tutto il giorno, tutti i giorni, quasi una ossessione, dove, anche qui, l’informazione si muta in spettacolo; da tempo gli inviati sostano perennemente davanti agli ospedali, nelle piazze dei paesi deserti, ad elencare dati, numeri, angosce, paure, a tratti orgogliosi nel dare la notizia di un decesso, e la gravità della situazione determina anche l’assenza del più idiota dei disturbatori durante le dirette, quel Gabriele Paolini che da anni interviene a sproposito.

    Questa volta nel film ci siamo noi, annichiliti da ciò che è arrivato dalla lontana Cina come l’onda di uno tsunami inarrestabile, velocissimo e spaventoso, letale perché subdolo e sconosciuto. Nessuno zombie questa volta, nessun Brad Pitt, o Milla Jovovich, Will Smith, Bruce Willis a difendere la specie umana.

    Quotidianamente leggo ciò che mi riesce impossibile credere, il panico che cresce, i paesi blindati, gli ospedali sbarrati, e mi immagino presto la corsa a svuotare i supermercati per chiuderci in casa e sopravvivere, sperando in un vaccino: siamo dentro al racconto, al film: fosse americano mi aspetterei un bel finale, il trionfo della scienza sul morbo, ma qui la situazione è piuttosto intricata.

    Da poco più di due mesi il mondo affronta la stessa cosa, un po’ come quando arrivano gli alieni, come in “Indipendence day”. Nel frattempo il caffè al mattino, col quotidiano aperto e Rai News 48 alla tele, è veramente amaro.

    A proposito di televisione, di spettacolo: tutti informano, tutti sanno, tutti conoscono le colpe, che ovviamente sono sempre dell’altro; i politici che ostinatamente mandano messaggi per tranquillizzare con estrema facilità e la moltitudine di virologi litigiosi che ogni giorno dicono la loro in merito. Non ne ho mai visti così tanti in vita mia, e devo dire pare una comunità piuttosto numerosa. Mancano  solo Red Ronnie e Eleonora Brigliadori a dire la loro e siamo al completo.

    Chissà cosa faremo, chissà se ce la faremo: certo altre malattie sono di gran lunga più letali e contagiose, anche solo le banali influenze annuali, ma oggi tutti abbiamo paura, viviamo male con questo pensiero, che purtroppo contribuirà a mettere in luce la parte peggiore di tutti noi: gli episodi che popolano le cronache parlano chiaro; ci stiamo trasformando negli zombie del film che massacrano una donna perché cinese, che insultano chi ha chiari lineamenti dell’estremo oriente, che minacciano chi non è come noi.

    Il virus, il coronavirus (mio Dio quante migliaia di volte l’abbiamo sentito nominare), è anche questo: qualcosa capace di modificare l’animo umano, di demolire non solo l’economia, ciò che facciamo tutti i giorni, la libertà di viaggiare e di spostarci, ma di cambiarci dentro. Saremo come animali braccati, spaventati, nascosti.

    Torniamo con i piedi per terra e perdonate queste divagazioni tragiche, ma a volte riuscire a trovare un barlume di ottimismo non è facile. Sicuramente arriverà una soluzione, le cose torneranno come prima, e la vita riprenderà, ma per quel tempo avremo imparato qualcosa in più? Dopo quel sospiro di sollievo che tutti desideriamo oggi, adesso, avremo capito la fragilità del nostro mondo, delle possibilità che si aprono se ci rispettiamo, ci prendiamo cura vicendevolmente di noi stessi, o aspetteremo il prossimo flagello che inevitabilmente si abbatterà?

    Nell’attesa, purtroppo, niente strette di mano, niente abbracci, niente baci. Però possiamo guardarci negli occhi.

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    Luciano Simonetti
    Luciano Simonetti
    Sono Luciano Simonetti, impiegato presso una azienda facente parte di un gruppo americano. Abito a Caselle Torinese e nacqui a Torino nel 1959. Adoro scrivere, pur non sapendolo fare, e ammiro con una punta di invidia coloro che hanno fatto della scrittura un mestiere. Lavoro a parte, nel tempo libero da impegni vari, amo inforcare la bici, camminare, almeno fin quando le articolazioni non mi fanno ricordare l’età. Ascolto molta musica, di tutti i generi, anche se la mia preferita è quella nata nel periodo ‘60, ’70, brodo primordiale di meraviglie immortali. Quando all’inizio del 2016 mi fu proposta la collaborazione con COSE NOSTRE, mi sono tremati i polsi: così ho iniziato a mettere per iscritto i miei piccoli pensieri. Scrivere è un esercizio che mi rilassa, una sorta di terapia per comunicare o semplicemente ricordare.

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