Covid-19, panico in salsa francese

Da Andrea Borello,  nostro corrispondente a Bordeaux

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Francia, lunedì 16 marzo 2020. Con qualche settimana di ritardo rispetto al Bel Paese, anche i vicini d’Oltralpe stanno cadendo del panico. Sono questi i due grandi assi su cui si svilupperà questo articolo: il ritardo e il panico. Sono strettamente legati e direttamente proporzionali l’uno all’altro.
Pare infatti che i cugini abbiano imparato poco o nulla dalla nostra tragica situazione. Anche se vedendo alcune immagini di gente in giro per i parchi da Torino a Bari a metà marzo, mi sono chiesto se anche alcuni nostri connazionali l’abbiano capita davvero.
Ebbene, mentre in Italia eravate già chiusi in casa, qui tutto procedeva nella norma. Scientificamente parlando, si chiama “paradosso di Giddens”. Il noto sociologo ne parla a proposito del cambiamento climatico, ma è perfettamente applicabile anche a questo proposito. Cosa dice in sostanza? Dice che quando una società prevede un trauma futuro, persino se è sicuro che quel trauma arrivi, tende a rimandarne la risoluzione, riducendosi paradossalmente ad affrontarlo solo quando arrivano i primi danni concreti. Troppo tardi, generalmente.
Come se un pescatore, vedendo una tempesta in lontananza, si volgesse e continuasse a pescare, invece di rientrare in porto.
Assolutamente irrazionale, ma con il coronavirus si è fatto così, e altrettanto si sta facendo con il cambiamento climatico. Osservare le strade di Bordeaux nell’ultima settimana è stato frustrante.
Persone che ignare continuavano a fare la vita di sempre, loro che avrebbero potuto evitare di fare il nostro errore!
Sabato 14 marzo il primo ministro Edouard Philippe ha annunciato la chiusura di tutti i locali a partire dalla mezzanotte. In tutta risposta un discutibile numero di giovani si è riversato per le strade a “festeggiare per l’ultima volta”, come scrive  sotto una foto postata su Instagram quella sera una mia conoscente tedesca in Erasmus. Personalmente, mi sono chiesto se per qualcuno di quei giovani sarà davvero l’ultima volta, ma speriamo di no.
Tanto, per essere coerenti con le indicazioni ministeriali, il giorno successivo si sono tenute le elezioni municipali in mezza Francia, da Parigi, a Lione, a Bordeaux e via dicendo.
Gli amici italiani in mobilità con me, nel frattempo, si preparavano a scappare in patria, organizzando spesso viaggi di fortuna e varcando la frontiera su taxi più o meno abusivi. Un shakespeariano “rientrare o non rientrare” è stato il dilemma principale per molti giorni. La scelta è sempre kierkegaardiana: un’alternativa esclude l’altra e entrambe hanno dei pro e dei contro molto solidi.
Da un lato rimpatriare significava dover lasciare a Bordeaux, le nostre case con quasi tutte le nostre cose, fare un viaggio forse non omerico, ma sicuramente con molti punti incerti, portare potenzialmente il virus alle nostre famiglie e doversene stare comunque, benché in Italia, chiusi in casa.
Dall’altro lato però saremmo stati a casa nostra, casa probabilmente più bella delle catapecchie da studenti di Bordeaux, saremmo stati vicini alle nostre famiglie, in un paese in cui i medici parlano la nostra lingua.
Il filosofo esistenzialista Kierkegaard sentenziò che scegliere porta ad una condizione di angoscia e, forse, ripensando al nostro sentimento generale di quei giorni, non aveva tutti i torti. Alla fine, in ogni caso, treni e pullman verso casa erano  tutti completi, carri bestiame di Italiani in fuga.

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La situazione dei francesi è degenerata quando il 16 marzo alle ore 20, un Messieur Manu Macron stranamente simile a Franklin Delano Roosevelt nei Discorsi del caminetto degli anni ‘30, ha proferito l’atteso verbo: quarantena à l’italienne per tutti. Vietato uscire, vietato vedersi. Clausura totale, non libertina come quella della monaca di Monza, ha precisato più volte il Presidente.
I Francesi prima se ne sono fregati, poi sono entrati in uno stato di panico. Mi sembrava di vedere un film di cui mi avevano già raccontato mille volte la trama, uguale a quella italiana.
Anche gli Erasmus hanno cominciato a rimpatriare. Rimarcabile il fatto che il Presidente abbia definito l’emergenza Covid-19 una “guerre”. Lo avrà ripetuto dieci volte: “Siamo in guerra. In guerra. Non contro uno Stato, ma in guerra, una guerra prima di tutto sanitaria.” Poco dopo, non si sa mai, ha comunque promesso una mobilitazione totale dell’armée francaise.
Ironie a parte, le misure sono buone e necessarie. In ritardo e su cittadini in panico, quello sì. E di sicuro questa situazione di emergenza farà recuperare un po’ di consenso a un presidente impopolare, come accadde con gli attentati di qualche anno fa.

Quella sera il futuro non sembrava difficile da prevedere. Era facile immaginarsi, come nel solito film già visto en Italie, qualche giorno di menefreghismo e tentate elusioni alla regola, poi un’applicazione di quest’ultima un po’ più seria, infine i canti e gli applausi dai balconi. E poi, si spera, un ritorno a una vita normale.

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