La domanda più stupida e più banale che possano porci in questo momento è “ Come va?”.
E come vuoi che vada: va come va. Passato il primo periodo in cui un po’ di euforia ci ha visitato, abbiamo cominciato a dover fare duri conti con una quotidianità per la quale non eravamo per nulla attrezzati.
Se il tempo assiste e si ha la fortuna d’avere una casa grande, è più facile sfangarla; ma chi vive in alloggio, magari in una convivenza difficile, non può che patire.
Sapendo per giunta che il tempo della nostra resurrezione è e sarà ancora molto lontano. Quando? Forse è proprio questa la cosa che ti uccide: veder posporre reiteratamente la data di un cauto ritorno alla normalità.
Sarà una Pasqua amara, travolti come siamo. Sì, travolti. Basta incrociare gli sguardi che sorgono dalle mascherine: minacciosi e minacciati. Sanno di preoccupazione che vira alla paura.
Stiamo tutti disciplinatamente in coda, un metro uno dall’altro, legati dallo scoramento e dalla deprivazione. Noi che, senza saperlo ed esserne consci, abbiamo fatto parte di un pezzetto privilegiato di storia, noi che fino all’altro ieri avevamo solo certezze, adesso siamo qui: smarriti.
Antonio Scurati sul Corriere ci ha descritto benissimo: “ Il loro apprendistato alla vita è stato un lungo apprendistato all’irrealtà televisiva. Avevano vent’anni quando hanno assistito dal salotto di casa alla prima guerra in diretta televisiva della storia umana, trenta quando sono stati bersagliati attraverso gli schermi televisivi dal terrore mediatico, quaranta quando l’odissea dei dannati della terra è approdata alle spiagge delle loro vacanze. Tutti appuntamenti fatidici che non potevano non mancare. Le grandi scene della loro esistenza si sono consumate in eventi mediatici, sono stati guerrieri da salotto, bagnanti sulle spiagge dei migranti, reduci traumatizzati da serate trascorse davanti alla tv. E ora sono in coda per il pane.
La loro infanzia è stata un manga giapponese, la loro giovinezza un party in piscina — ricordi? Era sabato sera e si andava a una festa; era sempre sabato sera e si andava sempre a una festa — la loro età adulta un tributo a una trinità insulsa e feroce: frenesia del lavoro, estasi dell’outlet, sublime da centro benessere. Hanno vissuto bene, meglio di chiunque altro, ma più vivevano e più erano inesperti della vita: mai conosciuto il morso della guerra, mai sfiorati dal sentimento tragico dell’esistenza, mai un interrogativo sul loro posto nell’universo. Turisti compulsivi, hanno girato il mondo senza mai uscire di casa e adesso la loro casa segna per loro i confini del mondo; hanno sofferto quasi solo drammi interiori e adesso il dramma della storia li catapulta sulla linea del fuoco di una pandemia globale; hanno il cellulare di ultima generazione eppure adesso sono in coda per il pane; hanno avuto più cani che figli e adesso rischiano la vita per portare il loro barboncino a pisciare.”
Ci si è rivoltata contro pure la parola “ positivo”: esserlo oggi fa disperare più che sperare.
Non resta che consolarci con due larghe verità che sono prepotentemente emerse: dopo decenni farlocchi, con la finanza a fottersene del prodotto e a insaccar nebbia che tanto l’economia girava lo stesso, adesso ci si è resi conto che senza produzione concreta le nazioni crollano miseramente al cospetto d’un virus.
Poi: cosa pensano oggi quelli che hanno sempre anteposto la legge del denaro a scapito delle competenze?
Dagli Anni ’80 non abbiamo fatto altro che sentirci dire che le competenze servivano a poco, che i numeri dovevano tornare. Infatti: sono tornati ed ora ci stanno presentando il conto.