Eh, la voglia di normalità è tanta. Ma Dio solo lo sa se e quando riusciremo ad averla.
Ma poi, quale normalità? Di sicuro, quella degli affetti: ritrovarsi per potersi stringere, potersi guardare occhi e bocca senza filtri, chiedere di nuovo e banalmente “Come stai?, senza dover tremare…
Di sicuro, non quella che ci ricaccerebbe nel frullatore di prima. Uno dei pochi meriti di questa pandemia – e l’abbiamo detto mille volte, ma vale la pena continuare a dirlo per evitare di dimenticarcene – è stato quello di obbligarci a ricollocare le priorità, a discriminare finalmente necessario e superfluo, smettendo di relegare il primo e di regalare tutto di noi stessi al secondo.
Di sicuro, aneleremo a ritrovare una normalità economica, ma al cospetto di quello che ci si parerà, purtroppo a breve, davanti questa sarà la corsa a inseguimento più sfiancante, quella che ci logorerà di più.
Sino a una settimana prima dalla fine dell’isolamento totale, l’incedere di molti è stato di assoluta frenesia, nell’attesa che si schiudessero le porte. A mano a mano che il traguardo si avvicinava abbiamo cominciato a chiederci che cosa avremmo trovato là fuori. Riaprirsi? Tenendo conto dei possibili cortocircuiti di troppo mondo del lavoro, delle perfide interconnessioni di economia e finanza, del morbo che per un sacco di tempo continuerà ad essere tutt’altro che un convitato di pietra, la voglia di tornare ad accucciarsi ci ha visitato. Ma questa voglia va scacciata, ed è qui, nelle nostre teste prima che in ogni altro luogo, che deve iniziare la “Fase due”.
Ammettiamolo, le nostre generazioni non erano e non sono ancora in grado di affrontare periodi di avversità. Siamo stati colti dall’insopportabilità degli eventi, sopraffatti dall’ansia e dalla rabbia. Ma la rabbia fa perdere lucidità e capacità di analisi; l’ansia ci fa percepire solo la nostra vulnerabilità nei confronti di un futuro incerto: attendiamo inerti che qualcosa ci sopraffaccia. Meglio avere paura. La paura è ciò che scaturisce da un problema reale e ci dice come affrontarlo. In questa fase dobbiamo assolutamente continuare a rivedere i modelli di comportamento: e per difendere la salute, e per non buttare via le vite, chiamate a reagire a un periodo impreventivato e non contemplabile nelle nostre esistenze.
E non possiamo neppure rifugiarci soltanto nei social per cercare una fuga da ciò che ci opprime.
Anche se, io che mi definisco a-social di vaglia, ho dovuto recentemente ricredermi. La notizia della triste fine di Giampiero Gaiottino, la commemorazione della sua morte hanno avuto una eco inimmaginabile, viste le migliaia e migliaia di visualizzazioni di ogni cosa che di lui parlasse. È stata la vittoria e la celebrazione della semplicità, e non si affibbi al termine un valore riduttivo.
Nel mondo di Giampy la semplicità era allontanamento da tutto ciò che non era essenza della vita. L’ostentazione gli era estranea: era la profondità ad interessarlo e ciò gli veniva dal credo religioso che lo permeava.
Se ognuno di noi è ed è stato ciò che il suo ricordo lascia, “Gaio” deve aver saputo attraversare il suo tempo con la grazia che solo l’innocenza può. Persino i social si sono inchinati e gli hanno dispensato solo parole buone. Bel miracolo.
In questi giorni il nostro cielo s’è fatto muto, ma, credimi, non tu sarai mai solo, amico mio.