A.C e M.V., per motivi rimasti oscuri, dissero di essere mossi da un notevole astio nei confronti dell’indagato e quindi, dopo ad aver denunciato il Faletto e dato inizio alle indagini che a qual punto languivano, accettarono di collaborare con gli inquirenti per incastrarlo.
Venne così organizzata una trappola con metodi che oggi porterebbero gli esecutori alla gogna mediatica e anche giudiziaria. Infatti, i due testimoni invitarono a cena Faletto, inducendolo a parlare dell’omicidio Codecà. Lui spiattellò tutto con il suo stile di sempre, senza sapere che nella stanza attigua i carabinieri registravano le sue parole.
Per esasperare la sua posizione, i due “amici” gli proposero di uccidere addirittura Valletta in cambio di venti milioni, lui, serafico, rispose: “Se ammazzo uno, lo faccio per l’ideale, i soldi vengono dopo”.
Le registrazioni di Faletto si trasformarono nella sua confessione che il 28 gennaio 1958 lo portò davanti ai giudici.
L’imputato non ebbe però esitazioni e si difese affermando che si trattava di smancerie dette per dare spazio al suo ego, ma prive di legami con la realtà.E l’ipotesi dell’omicidio di Vittorio Valletta?
Anche in questo caso una “sparata” determinata dalla sua certezza che il tutto non avrebbe avuto seguito.
Lo scorrere dei testimoni di fatto si trasformò in una serie di conferme sul passato violento dell’imputato: un rincorrersi di brutte memorie che di certo non giocarono a favore del Faletto.
“Sfilarono alcuni testi imbarazzanti, che rispolverarono il tremendo passato dell’imputato. Raccontò una ragazza: – Quando il Faletto non venne invitato a ballare a casa mia, lanciò una bomba a mano contro la casa. Saltarono tutti i vetri. –
Faletto picchiava, sparava, uccideva a sprangante chiunque si opponeva alla sua volontà” (P.M. Fasanotti – V. Gandus, Mambo italiano. Tre lustri di fatti e misfatti. 1945-1960, Milano 2000, pag. 176).
L’accusa si basava sul vissuto in guerra e dopo dell’imputato, chiedendo il massimo della pena: “L’ingegner Codecà è stato assassinato da Giuseppe Faletto per motivi politici, nel clima di un esasperato odio di classe”.
L’avvocato Quaglia, parte civile, poneva in evidenza la pericolosità dell’imputato che ebbe nella violenza politica di quegli anni il suo brodo di coltura: “Il Faletto è un criminale che ha la vanità di esserlo. Non fu lui a dichiarare ai carabinieri di essere stato conosciuto con il nome di boia? Quanti sono i testimoni che l’hanno sentito proclamare ostentatamente ‘’L’ho fatto fuori’’, ‘’Li ho fatti fuori”. Decine. Il Faletto aveva e ha l’ambizione di essere un giustiziere, ecco il punto centrale del suo temperamento! E poi, è dunque proprio indispensabile un movente? Il movente si trova nella presunzione psicologica di Faletto di essere un giustiziere-giudice (…) Non ha mai nascosto i suoi ideali politici (…) Aveva bisogno di un mandante? No! La verità è che in quei tempi Torino era piena di fermenti politici e che i giornali comunisti esasperavano la lotta di classe. Che bisogno c’era di veri e propri mandanti?”.
L’avvocato di Faletto operò sulle questioni eminentemente investigative: il lasso di tempo intercorso tra l’omicidio e le dichiarazioni dei testimoni, sulla loro credibilità e sul contenuto delle registrazioni.
Una difesa ben strutturata che ebbe i suoi risultati: il 7 marzo 1958 il tribunale di Torino assolse Giuseppe Faletto dall’accusa di aver ucciso l’ingegner Codecà per insufficienza di prove; fu però riconosciuto colpevole di altri sette omicidi commessi negli “anni caldi” della rivoluzione, quella ufficiale e quella personale.
Grazie ad amnistia e indulto, niente ergastolo, ma vent’anni di reclusione.
Massimo Centini