Lo sbigottimento che ci ha presi di fronte allo scoppio di questa epidemia – anzi pandemia – è stato causato principalmente da incredulità. Da troppe generazioni ci eravamo crogiolati nell’obblio di cose che ritenevamo ormai appartenenti a un passato remoto; non sapevamo più nulla di peste o morbillo, scarlattina, vaiolo, difterite, e nemmeno della più recente poliomielite. Tutto cancellato, tutto sparito, nella fiducia irrazionale che i grandi passi compiuti dalla medicina e dalla farmacologia ci avrebbero tenuti al sicuro da qualsiasi rischio.
Non era così in altre epoche, persino non troppo lontane, diciamo a metà ‘700, quando la morte per malattie epidemiche infettive, negli adulti ma specialmente nei bambini, era un rischio connaturato al fatto stesso di esistere. Se consideriamo tutti i viaggi che effettuò il piccolo Wolfgang Amadeus Mozart, insieme col padre Leopold, la sorella Nannerl, e spesso con la mamma Anne Marie, vediamo che furono costellati da malattie d’ogni tipo e genere. Ogni città toccata dal piccolo genio aveva una sua specialità: qui si prese una tosse convulsiva, là una febbre che non calava mai, in un altro posto un’otite purulenta, altrove delle non meglio specificate febbri reumatiche… Un vero miracolo che Mozart sia giunto fino all’età di poter esplicare la sua genialità nel modo che sappiamo.
In particolare il contatto col vaiolo, che a quel tempo imperversava in ogni angolo d’Europa, lo seguiva nei vari spostamenti come un’ombra costante e minacciosa. Nel 1764, a Parigi, in mezzo al furoreggiare della malattia, fu proposto a Leopold di fare “inoculare” il bambino, che al tempo aveva otto anni, seguendo una dubbia procedura che proveniva dalla Turchia: il virus, prelevato dalle pustole di vaiolo di una persona malata, veniva inoculato e dava spesso origine a una varietà più mite della malattia, però c’era anche il rischio di prendere il vaiolo nella sua forma micidiale e morire “per direttissima”. Leopold non se la sentì di acconsentire all’inoculazione; del resto dovevano ancora passare alcuni decenni prima che Edward Jenner, con mirabile intuizione, inventasse la “vaccinazione” iniettando il virus di vacca, più debole rispetto a quello umano, e tuttavia capace di originare immunità.
Sul finire del 1767 l’undicenne Wolfang si spostò con tutta la famiglia a Vienna, dove, come esecutore, avrebbe preso parte ai festeggiamenti per le nozze della giovanissima arciduchessa Maria Josepha col re Ferdinando di Napoli; ma in pochi giorni il clima di gioia si trasformò in incubo: scoppiò un’epidemia di vaiolo e la principessina fu una delle prime vittime, seguita poi da molti altri della corte. Leopold, inorridito (ben tre figli del suo affittacamere avevano preso il vaiolo), fuggì con la famiglia verso Brno, dov’era atteso, ma lì giunto “per un impulso interiore” (così disse) sentì di doversi allontanare ancora di più. Raggiunse Olmütz, che pareva indenne dal morbo, e prese alloggio nelle umide stanze di una locanda dove, la notte stessa, Wolfgang incominciò ad avere la febbre. Dato il periodo di incubazione della malattia, che è di dodici giorni, si può ritenere che fosse stato contagiato a Vienna. Non si sa se i genitori fossero immuni, certo è che la mamma e la sorella, in presenza di un peggioramento tragicamente in atto, si prestarono a curarlo con grande abnegazione. “Wolfgang si lamentava dei suoi occhi, la sua testa era bollente, le sue guance calde e molto rosse, e il polso rapidissimo.” Mancando qualsiasi preparato farmacologico, gli venne somministrata una certa “polvere nera”, sui cui ingredienti è meglio sorvolare, ma il bambino delirava e non riconosceva più i famigliari. Leopold, disperato, si ricordò di un suo conoscente che abitava in quella città, il conte Anton Podstatzky, rettore dell’Università, e si rivolse a lui. Podstatzky, appena saputo ciò che accadeva, e del tutto incurante del pericolo, fece trasferire la famiglia in casa propria e la sistemò in camere sane e confortevoli; non solo, ma chiamò subito un suo “medicus” di cui si fidava moltissimo. Il piccolo paziente era ormai tutto coperto di esantemi e pustole, con parti della faccia, specialmente il naso, tese e gonfie: ma nemmeno in quella circostanza aveva perso la voglia di scherzare visto che quando gli fu dato uno specchio per guardarsi “adesso assomiglio proprio a Mayr!” disse (Mayr era un orchestrale di Salisburgo celebre per il suo nasone). Dopo qualche giorno le cure empiriche ma sicuramente valide dell’ignoto “medicus” ebbero la meglio, cominciarono a staccarsi le croste, segno sicuro di guarigione, anche se, come effetto secondario, per più di dieci giorni il bambino restò affetto da cecità. Ma poco dopo ecco un nuovo spavento: si ammalò la sorella Nannerl, che tuttavia prese il morbo in una forma più lieve. Prima di Natale erano entrambi sfebbrati e il virus dovette battere in ritirata scornato (come auguriamo di cuore al Covid19). Ed è così che, grazie al generoso conte Podstatzky e al suo ignoto “medicus”, oggi possiamo ascoltare “Le Nozze di Figaro” e “Don Giovanni”.