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venerdì, Marzo 29, 2024

    Cartolina dalla Grande Guerra

     

    Durante “il tempo sospeso” sarà capitato a molti di riaprire cassetti e bauli dove riposavano da tempo oggetti, carte, giornali che “…un giorno -pensavate- avreste sistemato e catalogato per benino.” Da uno di questi, traboccante di ricordi, ecco improvvisamente comparire quella audiocassetta registrata una quarantina di anni fa, a cui avevo ripensato più volte, ma che assolutamente non ricordavo dove fosse finita. 

    Ho ancora un lettore (modernariato doc) che mi ha permesso di riascoltare e trascrivere l’intervista che avevo rivolto al nonno di mio marito, nato nel 1897 e mancato nel 1990. Sapevo che era stato arruolato durante la Prima Guerra mondiale, aveva prestato servizio nel campo  di aviazione di Arcade e faceva parte della squadriglia di Francesco Baracca. Per nonno Clemente un grande onore. Ma vorrei “sfogliare” la registrazione come fosse il diario ritrovato, scritto fitto fitto in  bellissima grafia com’erano quelle di un tempo, su pagine ingiallite e macchiate di ruggine di un quaderno di scuola.

    E dalla scuola parte il racconto.

    “Ho fatto la scuola elementare a Zenson di Piave fino alla 3°, dalle 10 alle 12, in una stanza dell’agenzia Guarnieri; faceva un freddo cane là dentro, eravamo lì con gli zoccoli, a piedi nudi.Gli zoccoli eran belli solo per fare d’inverno le scivolate sul ghiaccio dei fossi!!! Avevo un maestro   che era un giovane appena poco più istruito che gli Austriaci avevano nominato insegnante ed era rimasto con l’incarico anche dopo: era il conte Badini. Voleva che mettessimo le mani sul banco e picchiava con la bacchetta se non rispondevamo bene. I più discoli e prepotenti, i più “bacchettati”, lo aspettavano fuori da scuola e di nascosto gli tiravano sassi fino a casa. Pochi bambini però venivano a scuola, lì a Zenson di Piave; tanti avevano 3 o 4 km  da fare a piedi, nel fango, attraverso i campi. Me li ricordo tutti i miei compagni: Titta Giovanni, Furlan Umberto, Furlan Angelo, Piazzo Pietro, Padovan Cirillo e Padovan Napoleone, Padovan Narciso, Palatini Tullio, Palatini Riccardo, Cincotto Emilio, Cincotto Pietro, Cincotto Battista. Tutti maschi. Solo dopo qualche anno venne una maestra da Burano per le bambine.

    Eravamo tutti “baùchi”. Io andavo abbastanza, ma avevo sonno come tutti gli altri! 

    Arrivavamo alle 10 perché prima c’erano tutti i lavori da fare. A 8 anni accudivo le bestie nella stalla, portavo da bere nei campi, aiutavo in cantina, aiutavo le donne in casa. A 10 anni dovevo imparare a usare la falce e così via, a 13 anni lavoravo come un uomo: davo il verderame nella vigna dove producevamo 700 quintali di uva, guidavo otto buoi e si lavorava da mezzanotte alle 9 perché col caldo i buoi tiravan fuori una lingua così e toccava portarli alla stalla. Nella casa colonica eravamo in 59 persone.I vecchi nonni e i sei zii con la famiglia. Tutti insieme in una cucina a mangiare, attorno al grande focolare. I bambini erano una quarantina, ma sarebbero stati almeno ottanta! Purtroppo ne morivano tanti da piccoli con la polmonite o più grandi di tubercolosi. Io stavo bene, mangiavo con gusto la povera colazione fatta di pane con sopra un po’ di olio, lavoravo e poi via a scuola. Tutto cambiò con la morte del mio papà, Antonio Panizzo, il 1° maggio del 1911, all’ospedale di Venezia, dopo l’operazione di calcoli al fegato. 

    La grande famiglia aveva perso una “colonna” e non poteva mantenerci, così nel 1912 con mamma e fratelli siamo finiti nella più squallida miseria: una stanza che faceva da cucina, ma dove stava anche un montone e una camera, dove dormiva mamma con i piccoli, mentre io e i miei fratelli Pio e Toni dormivamo nel fienile. 110 franchi di affitto l’anno. Di colpo ero diventato l’uomo di casa e cominciai a lavorare come operaio o come bracciante a 1 lira al giorno d’inverno e 1,50 d’estate, le mie sorelle di 12 e 13 anni a servizio a 12 lire al mese più il mangiare, i fratelli più piccoli a lavorare come aiutanti nelle terre dei miei zii per un pasto e un paio di zoccoli. Dopo lo scoppio della guerra nel 1915 andai a lavorare sul Carso a scavare trincee e asfaltare strade, là ho lavorato otto mesi fino a che mi è arrivata la cartolina di leva. Avevo 19 anni. Il 15 ottobre del 1916 sono partito da Treviso e sono tornato a casa il 26 febbraio 1920. Il congedo mi arriverà  in Albania.

    10 ottobre – 12 ottobre 1916

    Ottava battaglia dell’Isonzo, conquista italiana di alcune posizioni sul Carso.
    31 ottobre – 4 novembre 1916
    Nona battaglia dell’Isonzo, conquista italiana di alcune alture dominanti sul Carso seppur al prezzo di pesanti perdite.
    21 novembre 1916
    Muore l’imperatore d’Austria e re d’Ungheria Francesco Giuseppe, gli succede Carlo d’Asburgo.

    Mi sentivo ancora un bambino. Sono partito di casa a piedi e sono arrivato a Treviso dove per la prima volta dopo una notte di attesa con altri ragazzi ho preso il treno che ci ha portati a Torino. Alla stazione sono arrivati a prenderci con la banda e ci han portati alla caserma Cernaia. Ventiquattro ore dopo ci hanno trasferiti a Vinovo per l’addestramento nel parco del castello, ma noi eravamo quelli dell’ultimo paese (Zenson) e così non essendoci più posto al castello siamo stati alloggiati in un mulino lì vicino: 50 soldati in un granaio per cinque mesi di durata del corso. Tutto il giorno avanti, indietro, march e istruzioni sulla vita militare: paga 10 centesimi e poco rancio, così alle 11 quando gridavano “Rompete le righe!” sapevamo che al bordo campo c’erano dei borghesi con ceste di pane e cioccolata; pagavi 5 schei  e ti davano un panetto grande e mangiavi da sior. Finito il corso, eccoci a Torino, a barriera di Casale, per un mese nella caserma di via Asti, fino a che, costituita la squadriglia di aerei da caccia ad Arcade, ci hanno fatti partire in treno per Treviso e di lì al campo di aviazione nuovo. Nella squadriglia operavano i piloti, i meccanici, i montatori, i motoristi, i mitraglieri, i cucinieri, i furieri e noi uomini di manovra. Ci son voluti tre mesi per organizzare tutto. Francesco Baracca era uno dei piloti più  famosi della 91°squadriglia, aveva avuto molto successo già nel ‘16. Ora eravamo nella primavera del 1917. Lo vedevo salire sul suo aereo dove aveva appiccicato il disegno di un cavallino nero. Era sempre sorridente e spavaldo. Però mi son qua a racontar ma lu a 30 ani el iera andà.

     

    Francesco Baracca (Lugo 1888 – Montello 1918) fu un aviatore italiano durante la Grande Guerra. Iscrittosi alla Scuola Militare di Modena, nel 1912 venne inviato in Francia per seguire un corso di aviazione. Da subito mostrò grandi capacità e divenne uno degli uomini più abili nel pilotare un aereo all’inizio degli anni ’10 intuendo immediatamente le grandissime potenzialità che questa macchina poteva dare nelle operazioni belliche.

    Quando l’Italia entrò in guerra, Baracca accelerò la sua preparazione su un nuovo tipo di aerei, i Nieuport. La prima azione venne effettuata il 25 agosto 1915 e il 7 aprile 1916 ottenne la sua prima vittoria, costringendo un aereo di ricognizione austro-ungarico all’atterraggio. Da quel momento il pilota romagnolo iniziò a collezionare numerosi successi che riempirono le pagine di tutti i giornali dell’epoca.

    La sua popolarità si accrebbe ancora di più quando nella primavera del 1917 venne formata la 91° Squadriglia, composta da quelli che furono definiti gli “Assi”. Molto probabilmente, fu in questo periodo che nacque anche l’idea di scegliere come suo simbolo personale un cavallino rampante di colore nero (in seguito riutilizzato dalla Ferrari su invito dei genitori di Francesco,in memoria del figlio che lo riteneva un portafortuna). Intervenne in moltissime battaglie ottenendo 34 vittorie nei cieli del Carso, delle Prealpi Giulie e in seguito nella zona del Basso e Medio Piave. Proprio all’apice della sua carriera, durante la Battaglia del Solstizio, venne colpito a morte sulla collina del Montello (19 giugno 1918) e l’uomo si trasformò definitivamente in un mito.

    È al campo d’aviazione che dopo un anno venne a vedere gli aeroplani una ragazza che sembrava una miniatura, piccola, esile, capelli nerissimi. Stava con il papà e una amica, Elvira Visentin, sul carretto tirato da una “mussetta”. Era Angela e non sapevo ancora che l’avrei sposata. Cercavano il fratello Pellegrini Amerigo (nato in Brasile come Angela) che lavorava anche lui al campo.

    Appena dopo Caporetto,(24 ottobre-12 novembre 1917)  mi diedero una licenza per accompagnare mia madre nel Meridione a Colle Sannita insieme ad altre 30 persone tra bambini vecchi e donne.

     Dal 1916 Treviso subì diversi bombardamenti aerei da parte degli austriaci. Dopo la ritirata di Caporetto, il fronte si attestò sulla linea Monte GrappaPiave, la provincia era tagliata in due e migliaia di trevigiani profughi furono evacuati e sparsi in tutta la penisola.

    È stata dura, fra treni persi, alloggiamenti di fortuna, raggiungere Campobasso e poi il centro di raccolta, però il Comando ci faceva avere da mangiare e il latte per i putei. Tornai di nuovo nella zona bellica, alla 79° squadriglia aerei da caccia a Nove di Bassano e lì ho continuato la guerra fino al giugno del 1918, quando, avendo le linee italiane necessità di rincalzi giovani ci mandarono tutti al fronte, al Piave. Quando ci fu la grande avanzata io ero con la compagnia mitraglieri della Saint Etienne, con armi francesi che a differenza di quelle italiane che si surriscaldavano, avevano un sistema nuovo di raffreddamento.

    Raffreddata ad aria come la Hotchkiss, la Saint Etienne aveva una gittata utile di 1500 metri (la massima era di 4500 metri). Utilizzava caricatori da 25 colpi a lastrina metallica oppure a nastro da 150 colpi. L’arma in dotazione all’Italia pesava 23,3 Kg era appoggiata su un treppiede del pedo di 26,5 kg . Si trattava di un’arma poco affidabile, soggetta a frequenti inceppamenti. I mitraglieri armati con le Saint Etienne si distinguevano per le mostrine bianco-azzurre, mentre i mitraglieri armati con le Fiat avevano mostrine bianco.rosse.

    Ero a 50 metri dal Piave. I pontieri buttavano ponti sul Piave per passare di là, prima correvano gli arditi e i volontari dei battaglioni d’assalto e man mano le truppe; ma quanti ponti son stati bombardati carichi di uomini! C’erano morti dappertutto,pezzi di uomini, di muli ; l’intero 8° corpo d’armata che aveva costruito rifugi sotterranei sotto una casa, proprio dove stavo io, è stato seppellito lì sotto: saranno stati una quarantina tra ufficiali, attendenti, telegrafisti. Tirati fuori a pezzi. Quattro giorni di carneficina che non dimenticherò mai. Siam riusciti a passare di là del Piave, ci hanno radunati e portati a Volpago, a  dormire in un solaio: a mezzanotte del 4 novembre abbiamo sentito suonare le campane e ci siamo alzati e abbracciati: era finita la guerra! Per me però non era ancora finita…mi aspettava l’Albania…”

     

    Nazarena Braidotti

     

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    Nazarena Braidotti
    Nazarena Braidotti
    Braidotti M.Nazzarena in Gaiotto Nata a Ciriè(To), tre figli, ex insegnante a Caselle, vive a Torino. Laurea in Lettere con una tesi sul poeta P.Eluard, su cui ha pubblicato, per Mursia, un “Invito alla lettura”. Grandi passioni: la scrittura, tenuta viva nella redazione di “Cose Nostre” e altri giornali locali e l’acquerello.

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