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martedì, Ottobre 15, 2024

    Finito tutto in uno…spritz

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    Prendo in prestito una frase di Gino Strada, colta durante una intervista: “Tutti vogliono la normalità, ma nessuno vuole cambiare”.

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    Il tempo delle persone unite, del farsi coraggio l’uno con l’altro, dei flash mob sui balconi, dei lenzuoli con dipinto “andrà tutto bene”, sembra ormai lontano, dimenticato; come passati e accantonati tutti i buoni propositi messi in cantiere durante la quarantena, quando giravano sui social le frasi sul dopo, sul futuro del post pandemia, quando tutti auspicavano una catarsi attraverso la quale uscirne purificati e mondati anima e corpo da ogni contaminazione. Ricordate le cose “buone” che il Covid-19 avrebbe dovuto lasciarci? Tipo, pensare a ciò che è importante e concreto, necessario e giusto, indispensabile o meno, una scala di priorità dettata dal cuore.

    Ma quando mai !

    I primi segnali in merito alla fine dell’emergenza, o perlomeno al riprendere parte  delle nostre abitudini, li abbiamo avuti allo scoccare del 4 maggio; anche un po’ prima, quando una marea di irresponsabili  ha sentito forte e irrefrenabile la crisi d’astinenza da spritz, da movida, da bottiglia di alcolico scolata in piazza alle due di notte, fregandosene dei medici, degli infermieri, di tutti coloro che ora non ci sono più.

    Siamo stati letteralmente trascinati dal desiderio di fare assembramento, nonostante i divieti; atteggiamento molto arrogante da parte di alcuni che, intervistati, rispondevano come avessero subito settimane di clausura ingiusta, di negazione della libertà personale.

    Non mancherà molto dall’archiviare dentro ad un cassetto l’immagine simbolo della guerra al virus: quella foto dell’infermiera stroncata dalla stanchezza, che ha fatto il giro del mondo.

    E i politici, tanti, sbucati come marmotte dopo il letargo, hanno ripreso a litigare sul come ed in quale modo l’emergenza avrebbe dovuto essere affrontata, e di nuovo le notizie sullo spread, del PIL negativissimo, dell’economia che arranca , con le immancabili statistiche ISTAT che ci mostrano cosa stiamo vivendo, anche se lo comprendiamo e lo subiamo pure senza grafici e percentuali, o cartelli uno, due o il tre, durante il martedì sera che trabocca di talk sempre più aggressivi e dei personaggi che da un paio di mesi scalpitavano per ritornare a dire e a dare la propria opinione, compreso il capellone alpinista, scultore, montanaro, e tanti altri.

    Anno d’oro senza dubbio per i virologi: mai così presenti come ora.

    Ma, a parte il ritorno alla cosiddetta normalità, il virus non ha ovviamente lasciato nulla di buono dentro di noi: siamo e rimarremo così come prima della pandemia; certo, senza lavoro, perché quello è il vero dramma. Soprattutto ha ucciso tutte le nostre certezze, alle quali eravamo abituati: ora viviamo preoccupati, spaventati, disorientati.

    Mentre eravamo tutti in casa, ognuno immerso nei propri problemi, nei propri pensieri, guardavamo gli spot adattati al momento, colmi di speranza nel futuro, di sorrisi benauguranti e sguardi languidi che facevano presagire un domani dove i cittadini avrebbero capito i reali valori, le vere necessità, ed invece sui social, non appena s’è percepita una parvenza di fine del lockdown, del blocco insomma (dirlo all’inglese fa sempre figo), non appena abbiamo “usmato” la possibilità di tornare come prima, via col coltello tra i denti, sulla tastiera, per strada, in piazza.

    E via con le rinnovate brutalità in America, messa a ferro e fuoco a causa del gesto sconsiderato di un gruppo di agenti, e con un presidente che mostra la Bibbia e parla come uno del Ku Klux Klan, via alle proteste schiacciate con aggressività a Hong Kong, riprese esattamente come se un qualcosa avesse premuto il tasto “play” dopo il “pause” di questi mesi; e le violenze sulle donne, aumentate paurosamente durante quei giorni passati sui terrazzi a cantare, noi, e a soffrire, loro. Come se non bastasse il movimento dei gilet arancioni di Antonio Pappalardo offre un panorama di prepotenza, squallore, che dilaga, tracima, infetta sia con l’ignoranza che con le false notizie cui ormai tanti negazionisti e complottisti abboccano come pesci quando viene gettata in acqua la pastura.

    Nemmeno Mario Balotelli è cambiato, anzi, è rimasto nella sua normalità senza speranza.

     

    Luciano Simonetti

     

     

     

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    Luciano Simonetti
    Luciano Simonetti
    Sono Luciano Simonetti, impiegato presso una azienda facente parte di un gruppo americano. Abito a Caselle Torinese e nacqui a Torino nel 1959. Adoro scrivere, pur non sapendolo fare, e ammiro con una punta di invidia coloro che hanno fatto della scrittura un mestiere. Lavoro a parte, nel tempo libero da impegni vari, amo inforcare la bici, camminare, almeno fin quando le articolazioni non mi fanno ricordare l’età. Ascolto molta musica, di tutti i generi, anche se la mia preferita è quella nata nel periodo ‘60, ’70, brodo primordiale di meraviglie immortali. Quando all’inizio del 2016 mi fu proposta la collaborazione con COSE NOSTRE, mi sono tremati i polsi: così ho iniziato a mettere per iscritto i miei piccoli pensieri. Scrivere è un esercizio che mi rilassa, una sorta di terapia per comunicare o semplicemente ricordare.

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