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venerdì, Marzo 29, 2024

    Davvero chi non conosce il mestiere non può capire?

    Ero un bimbo nei primi anni del dopoguerra e mi hanno insegnato che tutti i mestieri debbono essere rispettati, ragion di più quelli che contribuiscono a procurarci il cibo. Quindi, conservo il rispetto per chi si guadagna il pane con molta fatica, non ha un orario di lavoro leggero, non conosce le festività, le ferie ecc. e rischia anche di perdere il frutto del suo lavoro per avverse condizioni metereologiche o altro. Non sono però figlio di contadini. Lo erano i miei nonni cent’anni fa, ma il destino ha voluto che non crescessi con loro; purtroppo non ebbi nemmeno la possibilità di conoscerli, perché sono mancati prima della mia nascita. Perciò non conosco assolutamente il mestiere, né del coltivare la terra, né di allevare bestiame di alcuna specie. Ho trascorso la vita lavorativa principalmente seduto a una scrivania; non sarei nemmeno abile a coltivare un piccolo orto e non ho mai allevato alcun animale, nemmeno un canarino. Per questo non penso mi debba vergognare, e il non condividere gioie e dolori del mestiere non m’impedisce d’informarmi su un tema che m’interessa, e di capire che, purtroppo, abbiamo innestato la retromarcia, e stiamo precipitando incoscientemente nel baratro. Tutti i mestieri, ripeto, vanno apprezzati, se fatti con coscienza, onestà e rispetto dell’ambiente. Per ambiente, si sa, s’intende aria, acqua, terra. Se apriamo gli occhi non è difficile capire che, purtroppo, questi tre ingredienti basilari per la salute di ogni essere umano, animale e vegetale sono decisamente compromessi. Per l’aria tendiamo principalmente a incolpare le industrie, i trasporti, i consumi energetici urbani, anche se l’agricoltura e l’allevamento non sono esclusi. Gli imprenditori agricoli locali, bontà loro, si dichiarano rispettosi delle leggi in materia, ma leggo che l’agricoltura e l’allevamento riescono a dare un contributo non indifferente all’inquinamento dell’acqua e della terra. Non sono opinioni personali; mi limito a riportare, ciò che è a disposizione di chiunque, basta informarsi. Un rapporto lanciato dalla FAO e dall’International Water Management Institute (IWMI) afferma che a livello mondiale il contaminante chimico più comunemente rilevato nelle falde acquifere è il nitrato utilizzato in agricoltura. L’agricoltura moderna è responsabile per il riversamento di grandi quantità di prodotti agro-chimici, materiale organico, elementi salini nelle riserve d’acqua, afferma lo stesso rapporto. È anche il maggior produttore di acque reflue, in termini di volume, perché l’allevamento genera molti più escrementi degli umani. “In pochi anni è aumentato notevolmente l’utilizzo di pesticidi sintetici, fertilizzanti e altri input” – scrivono Eduardo Mansur, Direttore della Divisione FAO Terra e Acqua e Claudia Sadoff, Direttore Generale del IWMI-, nell’introduzione al rapporto.

    “Mentre questi input hanno contribuito a rafforzare la produzione alimentare, hanno anche provocato minacce ambientali e potenziali problemi per la salute umana” aggiungono. Gli inquinanti agricoli che destano maggiore preoccupazione per la salute umana sono i patogeni derivanti dall’allevamento, i pesticidi, i nitrati nelle falde acquifere, tracce di geni resistenti agli antibiotici nelle feci degli animali da allevamento. Il rapporto punta a riempire i gap di informazione e a delineare politiche e soluzioni a livello pratico in un unico documento. Il boom della produttività agricola che è seguito alla seconda guerra mondiale è stato ottenuto in larga parte attraverso l’uso intenso di pesticidi e fertilizzanti chimici. Dal 1960 l’uso di fertilizzanti minerali è cresciuto di dieci volte, mentre dal 1970 le vendite globali di pesticidi sono aumentate da circa un miliardo di dollari a 35 miliardi di dollari l’anno. Al contempo, l’intensificazione della produzione da allevamento, (gli animali sono più che triplicati dal 1970) ha portato all’emergere di una nuova classe d’inquinanti: antibiotici, vaccini e promotori ormonali della crescita che, attraverso l’acqua, passano dagli allevamenti negli ecosistemi e nell’acqua che beviamo. Si parla spesso di sovrappopolazione e si insiste sul fatto che nel 2050, secondo previsioni della FAO, saremo 9 miliardi di umani. Ma poco si dice della sovrappopolazione animale, che ha un potenziale devastante sulle risorse del pianeta, sull’utilizzo delle terre e dell’acqua, nonché ha un effetto inquinante e produttore di gas a effetto serra enorme. Il rapporto riconosce che principi conosciuti per combattere l’inquinamento, come quello “chi inquina paga” sono difficili da applicare perché individuare il colpevole è spesso difficile e costoso. Questo significa che misure per coinvolgere gli agricoltori in prima persona sono fondamentali per ridurre l’inquinamento alla fonte. Ricapitolando, dallo stesso rapporto: l’agricoltura è il maggior produttore di acque reflue, nella forma di drenaggio agricolo. A livello globale, circa 115 milioni di tonnellate di fertilizzanti a base di azoto vengono sparsi ogni anno. Il 20% circa di questi input finisce con l’accumularsi nel suolo e nella biomassa, mentre il 35% finisce negli oceani. Inoltre, sempre a livello globale, 4,6 milioni di tonnellate di pesticidi chimici vengono spruzzati nell’ambiente ogni anno. I paesi in via di sviluppo rappresentano il 25% del consumo mondiale di pesticidi in agricoltura, ma il 99% delle morti legate all’avvelenamento da pesticidi. Quindi l’inquinamento delle risorse idriche legato a pratiche agricole, rappresenta un rischio serio per la salute umana e per gli ecosistemi del Pianeta, un problema, spesso sottovalutato sia dai politici che dagli agricoltori. È evidente che i fertilizzanti e i pesticidi, utilizzati per concimare i terreni o allontanare i parassiti, sono tossici non solo per gli insetti e per la vegetazione, ma anche per i componenti della catena alimentare, e soprattutto per le persone. Inoltre gli scarichi agricoli spesso contengono sostanze come fosforo e azoto, che sono una delle cause dell’eutrofizzazione dei laghi e dei mari. Non tutti sanno che ci sono stati casi di inquinamento di falde acquifere, causati dai diserbanti, che hanno interessato il rifornimento idrico di diverse città italiane. Senza considerare che per nutrire gli 8 milioni di suini presenti in Italia, i 500 milioni di polli e galline ovaiole e i 6 milioni di bovini (mucche, bufali e vitelli) importiamo tonnellate di mais e soia. Ci sono paesi in cui la gente muore di fame mentre i loro terreni sono coltivati per esportare mangimi animali. La pianura padana, dove sono concentrati gli allevamenti intensivi, è pesantemente inquinata. Coloro che hanno la bontà di leggere quel che propongo su questa rubrica, da molti anni, sanno che spesso ho denunciato la distruzione dei terreni agricoli a favore di case e capannoni. Riprendo in parte il pezzo pubblicato l’aprile scorso: “Bisogna ripensare un graduale ritorno alla terra, non solo per la pura e semplice sopravvivenza, ma anche per la tutela del territorio e delle basi della vita. Si smetta di dire che non è realistico riprendere a coltivare la terra e ripopolare le campagne. L’Italia è strapiena di campagne abbandonate e cascinali che vanno in rovina; ci sono comuni fanno proposte allettanti per favorire l’insediamento delle persone. Occorre smettere di cementificare per speculare, producendo edifici vuoti, ma ridare alle città spazi verdi e possibilmente coltivabili. Anche in città sarebbe auspicabile creare orti, ovunque sia possibile. L’inversione di tendenza è quindi inevitabile se si pensa che fino agli anni ‘60 (non mille anni fa), le persone impegnate in agricoltura erano il 30%. Viviamo un Paese pieno di sole, dalle potenzialità geoclimatiche immense. Sarà il caso di cambiare rotta?” Sebbene la conservazione della terra sia fondamentale per rispondere alle esigenze di una popolazione globale che non vuole smettere di crescere, essa si sta progressivamente riducendo. Questo può significare soltanto una cosa: catastrofe umanitaria sempre più vicina. È l’Università di Sheffield a tracciare il quadro di un mondo lanciato verso un futuro di carestie, grandi migrazioni e tensioni geopolitiche da far impallidire quelle che oggi già viviamo. Nel frattempo anche la conferenza ONU sul clima ha pubblicato studi che disegnano un avvenire sempre più inquietante. Riepilogando, qualora qualcuno avesse frainteso: il problema non è il contadino, né la mucca, il maiale o il pollo. Il problema è l’agricoltura intensiva e l’allevamento di mucche, maiali e polli in forma intensiva. L’antico mestiere di chi amava la terra, gli animali e il verde è morto da tempo. I sopravvissuti a questa tendenza dovrebbero essere i primi a riconoscerlo.

     

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    Ernesto Scalco
    Ernesto Scalco
    Sono nato a Caselle Torinese, il 14/08/1945. Sposato con Ida Brachet, 2 figli, 2 nipoti. Titolo di studio: Perito industriale, conseguito pr. Ist. A. Avogadro di Torino Come attività lavorativa principale per 36 anni ho svolto Analisi del processo industriale, in diverse aziende elettro- meccaniche. Dal 1980, responsabile del suddetto servizio in aziende diverse. Dal '98 pensionato. Interessi: ambiente, pace e solidarietà, diritti umani Volontariato: Dal 1990, attivista in Amnesty International; dal 2017 responsabile del gruppo locale A.I. per Ciriè e Comuni To. nord. Dal 1993, propone a "Cose nostre" la pubblicazione di articoli su temi di carattere ambientale, sociale, culturale. Dal 1997 al 2013, organizzatore e gestore dell'accoglienza temporanea di altrettanti gruppi di bimbi di "Chernobyl". Dal 2001 attivista in Emergency, sezione di Torino, membro del gruppo che si reca, su richiesta, nelle scuole.

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