Diario di Nonno Clemente: piccola storia nella Grande Storia

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Dal suono di campana di quella notte del 4 novembre che ci aveva ubriacati di un’allegria nuova, mi ero dovuto svegliare in fretta. Il mio periodo di leva non era ancora finito! Al mattino, insieme ad altri giovani soldati, a piedi da Volpago, siamo andati a Venezia e di lì ci hanno imbarcati per Trieste. Là c’era un vento da portar via, così ci siamo infilati nelle buche scavate dalle bombe, venti trenta per ogni buca, per ripararci dal freddo e dalla bora. Al mattino, via in marcia per scaldarci fino all’Istria, passando per Castelnuovo, Matulje, Fiume. Siamo stati là cinque mesi, poi ci hanno aggregati alla Brigata Udine, 95° e 96° fanteria e ci hanno spediti in treno fino a Lecce. Qui abbiamo sostato otto o dieci giorni e ci hanno imbarcati a Bari per l’Albania.

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Ma, in tutto questo periodo pieno di fatica, di paure, di spostamenti, c’è stata una licenza che ricorderò per sempre: quella che dall’Istria mi ha fatto tornare per dieci giorni a Zenson di Piave, dove nel frattempo era tornata la mia famiglia dall’esilio forzato nel Sud, dovuto a Caporetto.

“Nelle drammatiche settimane seguite alla rotta di Caporetto l’Italia venne attraversata da oltre 630 mila profughi e da 100 mila soldati, come riporta lo storico trevigiano Daniele Ceschin nel saggio Gli esuli di Caporetto (Laterza): civili provenienti dalle province di Udine, Belluno, Treviso, Venezia, Vicenza; quelli dell’altopiano di Asiago e del distretto di Schio, divenuti rifugiati con la Strafexpedition del maggio-giugno 1916; e poi trentini, triestini, goriziani, istriani, fiumani e dalmati nonché i rimpatriati a causa della guerra. A seguire la tormentata via del profugato erano soprattutto donne e bambini, talvolta anche gli anziani e gli invalidi poiché gli uomini, se abili, erano stati richiamati al fronte: a bordo di treni venivano inviati dal ministero dell’Interno in regioni lontane dalla guerra come la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Campania, la Sicilia, la Calabria.

Venivano fatti alloggiare in alberghi requisiti dai prefetti su ordine del ministero (fatto, questo, che suscitava lo scontento dei proprietari una volta arrivata la stagione estiva), all’interno di strutture religiose e in case sfitte e potevano contare su un sussidio giornaliero di una lira e 25 centesimi anticipato dai comuni. Tuttavia per vivere, per mangiare, per vestirsi, il sussidio non bastava e allora per molti di loro era necessario trovare un lavoro, perdendo però, così facendo, l’aiuto statale.

Inizialmente circondati dalla solidarietà della gente locale, i profughi avevano dovuto poi fare i conti con la diffidenza: un sentimento aspro divenuto col tempo pregiudizio, e infine aperta ostilità. «Siamo tenuti per cannibali», era l’amara considerazione espressa in una lettera da una profuga udinese in Toscana. Dalla prima metà del 1919 mezzo milione di loro poté fare ritorno ai propri paesi, alle proprie case, quando queste non fossero state distrutte dai bombardamenti.( Monica Zornetta- L’Avvenire)

I miei vivevano sotto una tettoia, in attesa della “baracca” montata dall’esercito. Ero contento di abbracciarli: mia madre, le due sorelle e i fratelli, ma quel che mi premeva di più era rivedere Angela, quel visino sorridente su 35 kg di ossa (io con i miei 90 ero un colosso vicino a lei!)che mi aveva fatto capire che le piacevo. Dal giorno che l’avevo vista al campo d’aviazione di Francesco Baracca era stato il mio sogno e ora in questa licenza ci sarebbe stato il fidanzamento ufficiale. Son partito da Zenson con un mulo e un carretto di quelli da soldato, ma il mio futuro suocero a Sanbughe(r) era riuscito  a farsi imprestare una carrozzella dal compare e con quella, la domenica, ho portato i miei futuri suoceri e Angela seduta tra di loro, fino a Zenson di Piave, dove la mamma era riuscita a preparare un buon pranzetto per festeggiare la promessa ufficiale di fidanzamento. La sera siamo tornati che era notte. Ho passato la notte nel fienile e il mattino con il mio piccolo carro son tornato felice come un galletto.Di star da soli, io e Angela, …gnanca parlar!
Era ora di tornare al corpo di fanteria, con la piccola foto di Angela, capace di darmi forza e coraggio.
In Albania ci sono stato sei mesi fino al 26 febbraio del ‘20, data di congedo.
Lì era un inferno, non vedevamo case, solo paludi, capanne, deserto e partigiani che “ti copea tuti”: sparavano sull’accampamento la notte e nessuno si azzardava ad uscire da solo.Era morte sicura. Per portare un ordine da un battaglione all’altro dovevamo essere in ventiquattro armati, per far fronte ad eventuali attacchi. I Tedeschi avevano occupato metà Albania e quando persero la guerra si ritirarono e noi Italiani eravamo là a presidiarla. Certo i Tedeschi non si erano fatti benvolere: con le rappresaglie morivano dieci albanesi ogni tedesco ucciso, quindi almeno il 60 per cento dei partigiani era stato annientato. Ora gli Albanesi si vendicavano e non avevano paura di niente: quando potevano ne mettevano contro la montagna 20-30 e sparavano. Noi dall’accampamento non uscivamo mai!A nessuno veniva in mente di cercarsi un’avventura femminile! Le donne albanesi non si vedevano, coperte da testa ai piedi da un velo nero, stavano accanto al focolare giorno e notte. Quella capanna era tutta la loro vita! Niente agricoltura, solo miseria e malaria.
L’11 febbraio sono stato congedato, con 150 lire ( negli anni novanta quando ho registrato l’intervista erano l’equivalente di un milione), un taglio di stoffa per vestito e la paga di 16 giorni per tornare dall’Albania. Un’impresa anche questa! Due giornate di cammino per arrivare a una specie di porto e nessuna nave che potesse prenderci a bordo. Dopo 10 giorni ecco arrivare un piroscafo di lusso, il Ferdinando Genova che faceva viaggi con partenza e ritorno a Trieste. Ci hanno dato un posto in coperta. Era un piroscafo elegante, tutto velluti e camere da signori. Noi eravamo 18 soldati e portavamo 18 milioni almeno di pidocchi! A Bari lo sbarco e poi la tradotta: 68 ore per arrivare a Zenson. A casa nessuno sapeva che sarei arrivato. A Mestre ho preso il treno per Trieste e sono sceso a Fossalta di Piave. Poi a piedi fino a casa! Ci sono voluti tre giorni per liberarmi dagli ospiti sgraditi, poi ripulito e carico di sogni sono corso da Angela. Avrei voluto sposarla e andare in Francia a lavorare come tanti altri, ma i miei fratelli non potevano ancora espatriare e mi spiaceva abbandonarli. Tra la dote di Angela (10 galline e un ettolitro di vino) e poi, per aiutarmi a non emigrare, due prestiti: uno che si era fatto fare mio suocero di 1000 lire dal compare di Venezia e uno fatto da me di 1000 lire dalla cassa rurale di Monastir, sono riuscito a sposarmi e a comprare un carro con due cavalli. Lavoro ce n’era! Dovevo trasportare materiali per i cantieri della ricostruzione . Partivo la mattina presto e portavo 1000 mattoni dalla fornace al cantiere e la paga era di ben 70 lire per il lavoro di un uomo e due cavalli! In pochi anni ho potuto pagare i debiti e comprare un altro carro. Era diventata una piccola ditta di trasporti. Ora potevo attaccare ai cavalli anche la “baracchina “ bianca con le ruote rosse e portare in giro la mia Angela che sembrava una signora.

Naz

baracchina primo Novecento

 

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