La grande bellezza, il posto delle more

Per non scrivere sempre di Covid, aspettando il Natale

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Oggi viviamo in una realtà sempre più mobile e fluida che finisce per trasmettere incertezze e paure. La pandemia terrorizza il mondo e il mondo dell’informazione è sommerso di Covid, ogni minuto, ogni ora, ogni giorno. Virologi, vaccini e coronavirus, insieme a Dpcm, ormai viaggiano con disinvoltura per casa, fanno parte del nostro vivere. Ė un continuo vociare. Siamo vicini al Natale. Basta, basta ansia, lasciamo da parte per un momento il Covid-19. Parliamo d’altro. Di bellezza e di felicità, per esempio.
In questo difficile tempo tra l’altro vediamo che nascono nuove forme di appartenenza, la globalizzazione incalza, si va dentro il futuro senza nessuna pietà. Ma l’organizzazione sociale fatica a tenere il passo del progresso tecnologico: le nuove macchine, le nuove frontiere sono assai più veloci delle abitudini e dei sentimenti. Anche la ricerca della felicità e della bellezza diventa sempre più affannosa, con sempre meno punti di riferimento. Ecco allora che questo sentimento che dovrebbe lasciarti pienamente soddisfatto nei tuoi desideri, con lo spirito sereno, non turbato, ti sfugge sempre più perché non è lì, in questa società così indaffarata a sopravvivere, che si trova la felicità, che si trova il bello.
Le sfaccettature della bellezza e della felicità sono tante, una miriade, con sfumature impensabili. Si pensi alla “gioiosa” felicità di un bimbo che riceve in dono una palla colorata; oppure alla “straziante” felicità di una madre che un giorno apre la porta e si trova davanti il figlio dato per disperso in guerra da anni e lo accoglie con una risata gonfia di pianto.
Si può essere felici in tanti modi, dunque, anche quando nei preparativi per le sospirate vacanze d’estate ai mari o ai monti ti senti dentro all’improvviso il bisogno anche di una vacanza per lo spirito, ma anche di essere attorniato dalla bellezza. E allora ti domandi: perché non fermarsi ad ascoltare? E intanto che attendi il momento di partire sei lì che aspetti la pioggia che il temporale ha preparato e si è avvinghiato proprio sopra il tuo tetto e che sta per mollare. E mentre ascolti il ticchettio della pioggia sui vetri della finestra, ti scopri a pensare che questo sarà una bellezza da niente, ma t’acquieta, come una cosa bella.
Un esempio abbastanza normale di felicità “inconscia” e di ricerca di una certa bellezza e quello di una persona la quale dopo una vita di lontananza dal luogo di origine, vuole tornare in quel posto dove da ragazzo fu felice. Infatti un tempo, negli anni ’50, il nostro personaggio viveva là, in quel Piemonte quando la Langa non era ancora Langhe, cioè quella di oggi, era allora solo una terra aspra, dura, con colline che salivano, salivano e il portare rompeva le schiene.
Non c’erano sentieri di paradiso, no, ma andarci con gli amici era come avere le nuvole per mano.
Quelle alture che circondavano il paese ormai le conoscevano come le loro tasche: sentieri, anche scoscesi, pianori e boschi e grandi radure, specie d’estate andavano a more, conoscevano i posti e si riempivano la pancia. Anche perché a casa non è che poi ci fosse tanto da mangiare. Erano poveri, di famiglie povere, ma vivevano in un posto splendido, almeno per loro. Erano attorniati da viti, da noccioli, da tante piante, da tanti rovi, e tutto era semplice, e tutto era povero.
Non c’erano sentieri di paradiso, no, ma andarci con gli amici era come avere le nuvole per mano.
Il posto, forse uno dei più veri, era adagiato sulla pianura, contornato da verdi colline, solcato da un fiume, beh non proprio un fiume, da un canale, dove andavano a nuotare, a tuffarsi, a prendere il sole, a ridere con gli altri. E poi c’era il campo da calcio, oddio si trattava di un prato incolto ma spianato da mille e mille partite giocate con un pallone sempre sgonfio. Dopo la scuola, dopo aver mangiato – si fa per dire – cominciavano la partita quattro contro quattro e verso sera finivano ventiquattro contro ventitré o venticinque. Non riuscivano quasi mai a pareggiare i contendenti, ma neanche a pareggiare le partite perché avevano numeri di gol all’infinito. Alla fine stanchi come bestie da soma cenavano con una mezza anguria, quand’era il loro tempo, o d’inverno con polenta e polenta, a volte accompagnata con un po’ di formaggio o dei cavoli.
E le strade del paese erano larghe, e le case erano alte, e la chiesa pareva un duomo. E c’era tanto sole. Un posto dove il vento soffiava leggero sulle spalle e le piogge cadevano serene sui campi. E tutto ruotava intorno a loro, e loro ruotavano intorno al tutto, in simbiosi. Era il loro mondo, le tenere radici di un posto che avrebbero portato nel cuore per una vita. Erano felici. Erano ragazzi, avevano tutto il futuro davanti. Era il dopoguerra, la fine degli anni cinquanta, il mondo faticava a riprendersi dal disastro.
Ma un giorno il papà del nostro eroe – si fa per dire – a cena parlò ai figli e disse loro che con la moglie avevano deciso di trasferirsi a Torino, in città, dove già viveva un suo fratello. E ai loro “perché?” il padre rispose che qui in questa langa non c’era futuro, non c’era lavoro, non c’era pane per tutti. Là, tutto questo c’era ed era alla portata di tutti.
Erano quasi l’avanguardia degli immigrati, ancora prima dell’ondata degli alluvionati del Polesine. Infatti, i collinesi delle Langhe e dintorni furono i protagonisti del “nuovo modo di vivere”. Non facile, i langaroli se non altro parlavano un dialetto della lingua piemontese, anche se con diversissime sfumature. Ma gli altri no. E questo, in quel momento, fu un non trascurabile motivo delle difficoltà d’inserimento. Con gli anni si attenuò perché l’avvento della televisione – anno 1954, ma solo all’inizio del 1957 su tutto il territorio nazionale – che parlava in italiano a tutto lo stivale aiutò molto a limare se non eliminare certe differenze di usi, costumi e linguaggio delle diverse Italie di quel tempo.
E dopo tanto tempo, quasi mezzo secolo di città, di lavoro, il nostro immigrato dalla Langhe si diceva: ora sono a posto, non devo più restare a vedere i figli a diventare grandi, a crescere. La sua vita in un certo qual modo era finita, era in pensione, non mancava più nulla a completare serenamente il resto del giorno. E tuttavia…
…E tuttavia, un pensiero continuava a girare, a girare per la testa. Le more. Sì, le more quelle che in una lontana e felice estate andava a cogliere con gli amici. «Ma perché devi fare tanta strada per mangiare qualche mora che qui da noi si possono mangiare tutto l’anno» continuavano a dirgli i familiari quando lui spiegava che voleva ritornare in quel posto che lo vide giovane, adolescente, sereno e felice con un mondo grande così davanti. Ma ormai i rumori della memoria continuavano più forti che mai. E pesta oggi e pesta domani fatto sta che prese l’auto per ritornare, ancora una volta, nel “suo” mondo. E lui tornò, però là quel paradiso visto da piccolo non c’era più. Ora le strade erano strette, le case erano basse e il duomo era solo una chiesa come tante. Il canale che per tante estati fu il loro mare era ridotto ad un rigagnolo. Il posto delle more ora era una spianata di villette. La gente parlava sì il dialetto come una volta ma dopo oltre mezzo secolo di lontananza per lui questa lingua suonava se non strana comunque non sua.
Quel posto bello ora è diventato un posto normale, sempre più campagna che città. Niente di speciale, allora? No – secondo lui – conservava invece anche nel Terzo millennio una sua identità, osava dire che nonostante il cambiamento aveva ancora l’andare bucolico dell’Ottocento piemontese, lento ma sicuro. La terra odorava ancora di buono ed era ancora possibile “ascoltare” i grandi silenzi di quel mondo. In una parola tutto era ancora bello! No, non ne fu deluso, perché se l’è trovata dentro: una bellezza calma, senza fantasmagorie, in altra e parole: la bellezza che resta.
Il nostro “ricercatore” di felicità e di bellezza – ripensandoci. – si diceva: ho passato una vita a rimpiangere la felicità di un’adolescenza trascorsa tra la natura incontaminata e non mi sono mai accorto che essere marito, padre e nonno con un mare di affetto intorno, essere una persona che si è inserita nel tessuto sociale del posto, aver pagato sempre tutte le bollette che senza tregua arrivano, insomma – ricorda – l’essermi comportato come una persona normale per tutta la vita, rispettato anche perché ho sempre portato rispetto, l’ho capito solo ora che la felicità vera, tradotto anche come la bellezza del vivere, – non il “felicismo” o altre diavolerie – l’ho sempre portata con me. Era intorno a me.
E adesso – si domanda – che ormai della vita sto spendendo gli ultimi granelli di sabbia che il buon Dio ci mette in mano quando si nasce, ha ancora senso continuare la ricerca della “bellezza” nel senso più ampio della parola, oppure ad una certa età può essere ancora e solo una sfida. Forse sì, o forse no. Attenti, si può anche vivere o morire d’illusioni. Resta comunque in aria un “sì” che più che una illusoria ricerca a buon prezzo, in seconda battuta vale se non altro – ma non è poco – come un mancorrente per quel che resta del giorno, l’ultimo sole prima che arrivi il buio della notte.
Abbiamo parlato di piccole cose di tutti i giorni, ne esce così una bellezza senza fronzoli, senza luci vivide addosso, ma non per questo meno valida, perché con un pizzico di retorica possiamo anche dire che questa tipo di bellezza e di felicità scalda il cuore e sfiora la punta dell’anima.
C’è tanto Natale in tutto questo, ma anche un po’ di Pasqua. Auguri a tutti!

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