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venerdì, Marzo 29, 2024

    Il massacro di Villarbasse – Quinta puntata

    5° puntata

    Le confessioni di Giovanni D’Ignoti, Giovanni Puleo e Francesco La Barbera, condurranno a una ricostruzione abbastanza chiara delle fasi del massacro; ecco alcuni tratti salienti provenienti dalle loro dichiarazioni: “Pietro Lala, avendo conti da rendere alla giustizia (nel suo certificato penale si legge una condanna a sette anni di reclusione, per rapina, inflittagli il 27 aprile 1945 dalla Corte d’Assise di Palermo) si allontanava dal suo paese, il comune di Mezzojuso nel palermitano, per sottrarsi all’arresto. E la sorte lo favorì, ché, essendosi in quel di Ficuzza rinvenuto il cadavere di certo D’Elia, i più credettero di identificare in esso il latitante. Vagava questi, invece, indisturbato per l’Italia, e giungeva a Torino, dove, sotto falso nome di Francesco Saporito, si dava alla ricerca di un’occupazione. La ventura lo portava a Villarbasse, alla cascina Simonetto, dove veniva assunto per lavori di campagna e si conquistava ben presto la fiducia di tutti. Egli si diceva originario e profugo di Cassino, dove affermava di possedere, anche, un po’ di terra al sole.

    Sapeva il Lala, per la fiducia suscitata, che il Gianoli era persona danarosa, e in cuor suo prese a meditare proposito di rapina, che si andò man mano maturando. Ne parlò col suo compaesano, incontrato a Torino, Puleo Giovanni, che aderì, rafforzandolo, al proposito criminoso del Lala. Ma l’impresa richiedeva dei complici. Questi furono trovati successivamente nel D’Ignoti Giovanni e nel La Barbera Francesco, che accettarono, pronti, di partecipare all’impresa.

    Il Lala, sedicente Saporito, dopo avere, con perfido calcolo, indirizzato a se stesso una lettera con la quale un parente amico lo invitava a rientrare a Cassino, per curare la vendita del podere, e dopo aver dato lettura di questa lettera all’avvocato Gianoli, abbandonò la cascina Simonetto il 17 novembre 1945 e si portava a Torino. Nella bottega di ciabattino dove lavorava il Puleo, venivano presi gli ultimi accordi, e il giorno 20, i quattro, armati di rivoltella, col tram di Giaveno, in partenza da via Sacchi, raggiungevano la stazione di Sangano, donde, per vie diverse, muovevano alla volta della cascina Simonetto. Raggiunta la sommità di una dominante collina, a un cenno del Lala, che per non farsi riconoscere aveva scambiato con Puleo la propria giacca e si era nascosto il viso con un fazzoletto, penetrarono nella cascina.

    (…)

    Era l’ora di cena. Il mezzadro Ferrero, la moglie sua, il genero Morra Renato e un contadino che vi lavorava a giornata, Gastaldi Marcello, sedevano intorno alla tavola. Nella cucina della villetta adiacente, intente alla preparazione del pasto serale, stavano le domestiche dell’avvocato Gianoli, Martinoli Rosa, Delfino Teresa e Maffiotto Rosina.

    (…)

    Puleo e La Barbera avrebbero dovuto ‘’sistemare’’ i mezzadri; Lala e D’Ignoti gli altri. Entrarono i primi con le armi in pugno in casa del Ferrero e intimarono le mani in alto: si portarono i secondi, con lo stesso atteggiamento, e si mostrarono alle donne allibite e terrorizzate. Per quanto, come si è detto, il Lala, sedicente Saporito, avesse adottato una rudimentale maschera, fu riconosciuto dalla Delfino, non importa stabilire se subito o appena iniziate le operazioni che dovevano condurre alla progettata rapina. Certo si è che immediatamente, o poco di poi, un infernale proposito sopraggiunse nell’animo del Lala, e fu subito condiviso dagli altri: oramai il riconoscimento del Lala perdeva costui, e, con esso, i suoi correi; occorreva ad ogni costo assicurarsi l’impunità: a questo fine occorreva sopprimere tutti, niuno escluso, i testimoni di quella impresa, e di tutti fu freddamente decisa la strage”.

    Per portare a termine la strage fu adottato un metodo improvvisato, semplice e terribile che nella mente dei criminali sembrava essere l’unico mezzo per provare a farla franca: “Quelle persone, certamente ignare della sorte che li attendeva, rassegnate di fronte alla decisa violenza di quattro banditi, furono legate e condotte in cantina sotto la guardia del D’Ignoti, che fu all’uopo munito di un fucile da caccia trovato sul posto. E intanto il Lala, il Puleo, il La Barbera condussero l’avvocato Gianoli nella varie stanze dell’abitazione e cominciarono con l’impossessarsi delle prime diecimila lire tratte da un cassetto. Poi gli eventi precipitarono e il massacro ebbe inizio, dopo che il Gianoli fu condotto in cantina. Di qui, a uno a uno, i poveri abitanti della Simonetto vennero tratti e abbattuti”.

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