Di solito, se a delle persone genericamente amanti della musica chiedete a bruciapelo cosa abbia scritto di importante Beethoven, la risposta, unanime e di getto, sarà: “Le nove sinfonie”.
Difatti in quel periodo strepitoso situato fra la fine del secolo XVIII e il primo decennio del XIX – che fu detto “classico” – allo stile sinfonico di Haydn, di cui ci siamo occupati la volta scorsa, subentrò, inevitabile e logico, quello di Beethoven. I tempi erano maturi per ricevere un peso massimo della sua stazza. E malgrado la stragrande quantità di capolavori scritti in tutti i generi musicali, nelle sue favolose “nove” egli seppe imprimere un grado di personalizzazione tale da indurre la posterità a considerarle la “serie immortale”. Un unico corpo creativo che racconta una storia in nove puntate.
Consapevole che un compositore per essere ben considerato doveva “sfondare” anche in campo sinfonico, il musicista di Bonn, con la sua Prima Sinfonia in do maggiore (1801), di taglio strettamente haydniano, mise al mondo un lavoro che, a partire dalla “suspence” delle prime battute dell’adagio introduttivo fino al brioso e sbarazzino Finale, è di un equilibrio formale perfetto. Equilibrio che in parte si infrange nella Seconda Sinfonia in re maggiore (1803) tutta tesa verso il futuro. Frutto di ansie giovanili, di impeti galoppanti, con un tessuto orchestrale ispessito che procede per blocchi contrapposti, in questa sinfonia il soave Larghetto resta un’oasi di melodie sognanti su uno sfondo di gagliarda impetuosità. L’intenso bisogno di comunicare attraverso le note è evidente sin da queste prime due sinfonie e conflagrerà nel gran ribollire di forze e aspirazioni che costituisce la Terza Sinfonia in mi bemolle maggiore “Eroica”, vale a dire una pietra miliare della civiltà musicale moderna. Beethoven era un artista che viveva il suo tempo in modo totale, assorbiva gli eventi, assimilava i fatti politici, operava scelte di campo. Incline da ragazzo al giacobinismo, per un certo tempo credette che le conquiste della Rivoluzione sarebbero state confermate e sostenute da Bonaparte. Un equivoco in cui caddero in molti. Durante tutto il 1803 e parte del 1804 visse tuffato nella realizzazione fonica di questo sublime ideale, e se poi il destinatario lo deluse e la benda cadde, a noi rimase una sinfonia senza l’uguale. “L’immenso afflato epico di questa creazione, la sua irresistibile forza di suggestione, sono tutt’oggi ancora i medesimi del primo giorno, 7 aprile 1805, in cui essa fu rivelata al pubblico” così Carli Ballola. Non voglio ripetere quanto ho già detto in occasione di un articolo scritto tempo fa sulla Terza; dirò solo che tutto in lei rivela un rigoglio creativo inaudito.
Dopo uno sforzo così titanico Beethoven si concesse una pausa, per riprender fiato, la Quarta Sinfonia in si bemolle maggiore quasi coeva alla Terza, ma di carattere affabile e confidenziale. La si potrebbe dire il trionfo degli strumenti a fiato: vi troviamo una misteriosa apertura in tempo lento che sfocia nel radioso Allegro Vivace; un Adagio basato su un’ossatura ritmica pulsante sopra cui si dipana un tema di rara vaghezza melodica; uno Scherzo (definito Minuetto) nel cui trio alitano dolci richiami boscherecci; e infine il Finale, concepito come un “moto perpetuo” dove allegria e scherzosità volano per cieli tersi e incontaminati. Solo i superficiali potrebbero pensarla della stessa stoffa delle prime due; in realtà è una sinfonia di maturità tutta nuova.
Il contrasto esistente fra Terza e Quarta si ripete fra Quinta e Sesta, la prima nel tragico tono di do minore, la seconda pacificamente in fa maggiore. Iniziata all’indomani dell’Eroica ma portata a termine solo nel 1808, la Quinta fu soggetta fin da subito a un processo mondiale di mitizzazione. Il suo fascino tremendo di “sinfonia del destino” si basa sull’inciso di quattro note (non lo si può chiamare tema) dello stringato Allegro iniziale: fatalismo allo stato puro che, dopo un Andante con Moto consolatorio, torna a inserirsi ruvido negli anfratti dello Scherzo fino a perdersi in una transizione con archi e timpani di alta potenza drammatica, che conduce al tripudiante Finale.
Anche la Sesta, la “Pastorale” (“più espressione di sentimenti che pittura” specificò lo stesso autore), segue una procedura consimile collegando i due brani finali: uno scatenato “temporale” unisce infatti lo Scherzo contadinesco all’inno di ringraziamento, arcobaleno di pace, con cui il poema si chiude. L’enorme amore di Beethoven per la natura è noto: “quando entro in un bosco entro in un tempio” diceva; ed anche “amo un albero più che un uomo”. Più che il suo pensiero, qui è il suo cuore a condurci per mano fra riposanti paesaggi di prati e selve, nel primo tempo, o fra le fresche cascatelle della scena presso il ruscello, nel secondo…
Ma mi accorgo che queste poche righe non bastano per parlare di tutte e nove. Le restanti sinfonie, al prossimo numero.
Luisa Forlano