Il maestro chiede ai musici: chi è che dà il tempo alla banda? Tutti si girano verso il batterista, che sapendo come andrà a finire si nasconde tra i tamburi. Il maestro, trattenendo uno scatto di ira, urla che è lui che dà il tempo a tutti, anche al batterista, ed è la sua bacchetta che tutti i musici devono guardare. Ma noi sappiamo che i batteristi, quelli bravi, sono braccia e menti indispensabili per tenere insieme tutta la compagine.
La batteria, così come la conosciamo, nasce con il jazz, circa 100 anni fa. A differenza della musica classica europea in cui le percussioni sono “strepito, nel senso che hanno solo la funzione di intensificare gli effetti di fortissimo….. il beat di un batterista jazz non è un effetto, ma crea uno spazio in cui si svolge il divenire della musica” (Joachim Berendt – Il nuovo libro del jazz – Sansoni). Il ritmo è un fattore di ordine, il batterista è colui che abilita e regola, quando non dirige, l’espressione degli altri solisti. Quando si prende di tanto in tanto lo spazio per un assolo lo fa per consentire agli altri musicisti di riorganizzare le idee e prepararsi per la performance successiva.
Il rock e la musica pop anni Settanta sviluppano e rinnovano l’uso della batteria, sempre in chiave ritmica ma con una decisa impronta di leadership, aprendo nuove prospettive.
La batteria moderna è costituita al minimo da quattro pezzi, come i quattro arti del batterista: con i pedali vengono azionati la grancassa ed il charleston (la coppia di piccoli piatti contrapposti montati su asta) con le bacchette si dà voce al rullante ed al piatto grande. Questa configurazione base è di solito arricchita da un numero crescente di tamburi di piccole e medie dimensioni (i tom) ed altri piatti fino ad arrivare a configurazioni impressionanti che richiedono un palco nel palco. Nel rock è spesso usata la doppia cassa che consente un martellato possente e dei rullati molto veloci utilizzando i due piedi.
Il piatto è il pezzo più affascinante e merita una digressione. Conosciuti fin dall’antichità ebraica e greco-romana con il nome di cembali, i piatti si sono affermati nella tradizione musicale classica e operistica con il nomignolo di turcherie. Si dice che le bande dei temibili eserciti ottomani si distinguessero proprio per l’utilizzo di piatti, triangoli ed altre diavolerie di metallo udibili a grande distanza. Non c’è quindi da stupirsi se i più raffinati costruttori di piatti della storia si trovassero a Costantinopoli. L’invenzione della lega di bronzo di cui sono fatti risale al Seicento ad opera dell’alchimista armeno Avedis. La famiglia Zildjian (“fabbricante di piatti”) apre agli inizi del Novecento negli USA pur continuando a produrre in Turchia; a tutt’oggi questo marchio è al top della gamma. Come italiani però non possiamo non citare la Unione Fabbricanti Italiani Piatti (UFIP) consorzio di Pistoia che a partire dall’Ottocento produce strumenti di altissima qualità con tecnologie innovative, fornendo spesso materiale per i marchi più noti internazionalmente.
La banda ha il privilegio di spaziare tra molti generi musicali, può anche non far suonare il batterista nei pezzi più classici, ma sicuramente lo esalta nel repertorio leggero e soprattutto nelle composizioni scritte per banda. Senza tema di smentita, una banda che “suona bene” ha sempre dietro un ottimo batterista.
Anche stavolta un appello: ragazze venite a suonare, la batteria non è strumento da maschi, ci sono in giro delle batteriste strepitose anche nelle bande e delle vere star nella musica internazionale. Un nome? Googlate “Sheila E”.