Quando Paolo Rossi tirò giù il Brasile e la veranda

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La rubrica “Piazze Amiche” di questo numero ci porta in Veneto, e più precisamente nella provincia di Vicenza. Sulle prime propaggini dei Colli Berici, fra pianura e collina, sta il comune di Brendola. Cittadina senz’altro operosa, in quanto con meno di 7000 abitanti, ospita più di 800 piccole e medie imprese (fonte: wikipedia). A Brendola c’è anche una vivace Pro Loco, che, come la nostra di Caselle, è editrice di un mensile. “In Paese” è il nome della testata, che ha iniziato le pubblicazioni nel 2003.

Da “In Paese” dello scorso mese, riprendiamo questo breve racconto, di ispirazione autobiografica, del suo Direttore Responsabile, Alberto Vicentin. Oltre che giornalista pubblicista, Alberto Vicentin è anche blogger (www.spuntidivista.blog), nonché ingegnere chimico e consulente ambientale.

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Quando Paolo Rossi tirò giù il Brasile e la veranda               

Se stendo la mano con il palmo verso il basso, posso ancora sentire il contatto con la superficie ruvida della gradinata, la graniglia in rilievo che lasciava per un po’ i puntini rossi sulla pelle. Le ruote delle macchinine grattavano sul gradone scabro, con saltelli intermittenti e con un rumore stridulo che però non arrivava quasi mai alle orecchie, neutralizzato dagli altri e più grandi rumori dello stadio.

Erano i distinti laterali numerati del Romeo Menti, incastrati tra l’austera tribuna coperta e la chiassosa curva sud. Era il 1978 e avevo cinque anni. Era il Real Vicenza e, lo confesso, non ero molto interessato. Mio papà mi portava lo stesso allo stadio e forse solo ora lo apprezzo davvero. Allora invece avevo in mente di tenermi in tasca un po’ di macchinine per dribblare i lunghi momenti di noia durante la partita. Intorno stavano seduti e poi si alzavano e poi si sedevano ancora e poi di nuovo balzavano in piedi, così che sul mio rozzo piano di gioco si alternavano luci e ombre. Là davanti con la stessa alternanza, dal mio punto di osservazione, il campo verde pastello compariva e scompariva, ora sagomato dalle linee mobili di schiene e teste e ora completamente nascosto da alti colonnati umani che, nella memoria infantile, si chiudevano a volta oscurando il cielo.

Ricordo soprattutto i suoni.

Quello dall’altoparlante che, prima della partita e durante l’intervallo, annunciava gli sponsor e le formazioni con un timbro pacatamente euforico, riconoscibile e famigliare, e mi sono sempre chiesto se c’era proprio qualcuno al microfono o se era una specie di voce meccanica, un po’ come gli avvisi dei treni in stazione.

Quello dei cori ritmati che emanavano dalla curva cui, talvolta ma non sempre, rispondevano timidi echi in altre parti dello stadio, eccetto quanto il suffragio universale del gol fondeva l’intera categoria dei tifosi in una democratica esplosione.

Quello delle bestemmie e degli insulti di chi in campo avrebbe fatto meglio dei giocatori, di chi li avrebbe cacciati o addirittura fatti fuori, di chi non trovava vie di mezzo tra il tripudio e l’ira, e così facendo disturbava le evoluzioni delle mie macchinine e mi strappava accigliati rimproveri: “Ma basta, provate a starci voi in mezzo al campo!”

E soprattutto quello inconfondibile dei colpi al pallone, secchi e morbidi insieme, amplificati dal catino dello stadio, duplicati dall’impercettibile distacco temporale tra l’azione vista e l’azione udita, la prima laggiù nel campo e la seconda da qualche parte vicino al cuore.

C’erano nomi, nel 1978, allo stadio Romeo Menti di Vicenza, che segnavano la storia. Tra questi, su tutti, Paolo Rossi, che si intrufolava nella passione della gente con la stessa sobria, furtiva e penetrante abilità con cui si intrufolava nelle difese avversarie.

Forse anche per questo in un pomeriggio di luglio di quattro anni dopo venne giù la veranda della roulotte, in un campeggio di Tortoreto Lido. La tv era piccola, appoggiata su un tavolino traballante, con le antenne protese alla tenace ricerca di un segnale sempre lì lì per sfuggire. Intorno era tutto scomparso, la strada bianca tra le piazzole, il blocco di bagni poco lontano e appena più avanti, dietro un filare di giovani alberi, la spiaggia di ciottoli che arginava il mare. Fu al terzo gol di Rossi contro il Brasile che venne giù la veranda, colpita e affondata dal mio braccio che, per scomposta esultanza, urtò ed abbatté uno dei paletti portanti.

E stasera, mentre in TV ripassa ancora una volta la telecronaca di Italia-Brasile del Mundial, quello vero e memorabile, che è stato e sempre sarà España ‘82, e mentre ancora una volta rimango inebetito a guardarla fino alla fine, pensando “dai, ancora un po’… almeno fino al prossimo gol… poi basta… no, dai, ancora uno… ora vado però… aspetta che arriva quello annullato ad Antonioni… ok, chiudo, ma… ormai ci siamo, c’è la parata di Zoff sulla linea…”,  ecco, stasera la graniglia delle gradinate, le macchinine e i suoni dello stadio, la veranda crollata e tutti gli anni passati a giocare al pallone, tra allenamenti nel campo di paese e campionati giovanili di provincia, tornano a galla, fluttuano, si sovrappongono e poi convergono nell’immagine di un ragazzo magro, sorridente ed educato che porta uno dei nomi più comuni e più unici del mondo, Paolo Rossi.

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