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Comune di Caselle Torinese
venerdì, Marzo 29, 2024

    Territorio di caccia dei Savoia tra Venaria, Caselle e Borgaro

     

    Particolare della carta delle cacce con la vasta area boschiva che da Venaria portava a Santa Cristina

    Nella storia del nostro territorio basso canavesano, vicino alla Venaria Reale, non si può dimenticare quanto l’esercizio della cosiddetta “caccia reale” abbia influenzato lo sviluppo del territorio tra il XVI e il XVIII secolo; in questo periodo si sono susseguiti numerosi editti ducali che regolavano in modo stringente sia il taglio dei boschi per mantenere una sufficiente area boschiva, sia gli antichi diritti feudali dei Signori locali limitando sensibilmente l’uso del territorio per la pratica venatoria, il tutto al fine di favorire le numerose battute di caccia del sovrano.
    La costruzione della Reggia di Venaria Reale, che è l’unica residenza venatoria europea a portare il nome stesso della caccia, è stata determinata proprio dall’esercizio della caccia in questa zona, e non il contrario, tanto che già documenti della fine del 1500 attestano la pratica della caccia nel territorio, favorita dalle ampie zone boschive presenti.
    Ovviamente le battute di caccia non si limitavano ai territori ducali della Venaria, ma si spingevano ben oltre i confini comunali, interessando i grandi boschi presenti lungo la Stura del territorio di Caselle e Borgaro, per spingersi fino ai boschi del Mappano passando a sud di Borgaro, che quasi formavano un’unica selva interrotta ogni tanto da zone coltivate con al centro delle grandi cascine.
    Soprattutto nella regione denominata Vauda oltre Stura di Caselle sono ben evidenti nella cartografia settecentesca sia le grandi radure con al centro le cascine, circondate da vaste aree boschive attraversate da larghe strade rettilinee, le cosidette “rotte di Caccia”, che quando si incrociavano formavano i “rondò di caccia”.
    Alcune di queste cascine, di proprietà di nobili molto legati alla corte sabauda, venivano anche utilizzate durante le battute di caccia come punti di sosta e ristoro per tutta la grande “carovana” che seguiva il sovrano.
    Le “cacce reali” erano una tipologia particolare di caccia, regolata da complessi cerimoniali di corte, che fin dall’alto Medioevo rappresentavano una sorta di messa in scena del potere sovrano. Generalmente la caccia prevedeva l’inseguimento della preda, per lo più cervi e cinghiali, ma anche lupi e uccelli, da parte del Signore locale, accompagnato da mute di cani appositamente addestrati con al seguito numerosi uomini, sia a cavallo che a piedi, a cui erano assegnati compiti precisi, secondo una ben definita sceneggiatura rituale.
    Col passare dei secoli, le cacce reali divennero uno dei riti più celebri e celebrati delle corti di tutto il continente, per le quali furono realizzati complessi sistemi di residenze, che ridefinirono il territorio, diventando regge emblematiche non solo delle corti degli stati monarchici, ma dello stesso progetto assolutista, di cui il caso di Versailles è il caso più famoso.
    Questo “piacere da gran Signori e conveniente ad un uomo di Corte”, ben si adattava al modo di vivere dei Principi Sabaudi, e per essi l’attività venatoria rappresentò sempre il principale loisir, come del resto avveniva nelle più importanti corti europee.
    Oltre che strumento di propaganda per le dinastie a vocazione militare, la caccia era anche considerata una forma di addestramento alla guerra, e la caccia per il gentiluomo di corte era una prova di destrezza, che non di rado terminava col ferimento o addirittura la morte del cacciatore, tanto che alcuni personaggi di casa Savoia trovarono la morte a causa della caccia, come, ad esempio Amedeo VII il Conte Rosso (1360‐1391), Filiberto il Cacciatore (1465‐1482) e Filiberto il Bello (1480‐1504), mentre altri, come Carlo Emanuele II, corsero gravi pericoli.
    Con lo spostamento della capitale del Ducato da Chambery a Torino si spostò anche progressivamente l’attività venatoria alla pianura piemontese, dove ampie superfici boscate, inframmezzate da radure, rendevano la caccia particolarmente piacevole.
    La Caccia Reale si sviluppò su un cospicuo territorio riservato alla Casa Regnante, che dalla fine del Cinquecento si estendeva su tutta la pianura piemontese dal torrente Cervo ad est, fino al Po a sud avendo come limite settentrionale il piede delle montagne. Le regioni della Venaria Reale e di Stupinigi rappresentavano, per le loro caratteristiche fisiche e per la ricchezza di selvaggina, i paesi più belli dove “correre il cervo”.
    La selvaggina preferita dalla Corte Sabauda era il cervo, che veniva cacciato secondo regole ben precise, sostanzialmente con le stesse modalità di quella francese, che era anche la più spettacolare. Questo tipo di caccia consisteva nello scovare un cervo, nell’inseguirlo a cavallo e a piedi con l’ausilio di cani, e infine nel raggiungerlo per finirlo, sempre seguendo regole precise; si cacciava solo il cervo maschio e il cerimoniale era molto complesso, durando la caccia in media quattro ore, e a Venaria si svolgeva non meno di due volte alla settimana.
    Un altro tipo di caccia molto diffuso nei dintorni della Reggia, era quella cosiddetta “delle tele”, che consisteva nel recintare ampie zone di bosco con reti o tele dove venivano spinti all’interno i cervi o i cinghiali.
    In una zona opportuna del recinto veniva disposto un palco coperto, su cui si disponevano il Re e gli ospiti in attesa delle prede, che venivano uccise a colpi di fucile, man mano che passavano davanti al palco. Nell’archivio storico del Comune di Venaria esiste un documento del 1589 che attesta il pagamento di alcuni uomini che avevano lavorato per la caccia alle tele proprio sul territorio di Caselle.

     

    Particolare delle Vaude oltre Stura tra Caselle e Robassomero con evidenti le rotte di caccia che attraversavano i boschi

    Proprio a Caselle nella zona verso Stura, dopo il guado delle Volpi ai margini del bosco, sorgeva la Cascina Carignana (oggi sede della Kelemata), di proprietà del Principe Savoia-Carignano, che spesso nel XVII secolo la utilizzava come ritrovo di caccia.
    Numerosi sono anche i documenti che attestano i danni causati dall’esercizio della caccia, e vari documenti attestano esenzioni fiscali che il Duca riconosceva alle varie comunità per i danni causati da cervi e cinghiali alle campagne, oltre che al compenso dato alle Comunità che mettevano a disposizione uomini e carri per lo svolgimento delle battute di Corte.
    La tenuta di Santa Cristina
    Come detto, a sud di Borgaro una lunga fascia boscosa portava dalla Venaria, passando per i guadi sulla Stura, fino al Mappano, con ampie radure dove si insediarono alcune grosse cascine.
    La prima che si incontrava era quella antichissima della Stroppiana, cosiddetta perché nel Cinquecento era di proprietà del Conte Langosco di Stroppiana, e che poi passò al Conte Birago di Borgaro, uno dei tre feudatari del luogo.
    Poco dopo una piccola zona boschiva, sorgeva l’imponente Cascina Santa Cristina, ancora oggi utilizzata come azienda agricola che, sia per la sua estensione che per la sua architettura, è la più importante di tutto il Comune.
    La vista che si prospetta in fondo al rettilineo che arriva da Torino, rende subito l’idea dell’imponenza della cascina: un fronte di circa 200 metri di lunghezza, con quattro torri rigidamente simmetriche al portale d’ingresso.

    Santa Cristina, veduta del complesso

    All’inizio del XVII secolo la cascina non esisteva ancora, e la zona, denominata Regione Carro, era suddivisa in almeno otto proprietà, tra le quali quella del Sig. Bartolomeo Chiureri che, con un’azienda di oltre cento giornate, era sicuramente la più importante.
    La storia vera e propria della Cascina Santa Cristina inizia con l’arrivo in Piemonte del nobile François Havard de Sénantes, Conte di Ligneville, uno dei tanti francesi venuti a cercare fortuna al servizio sabaudo con le truppe al seguito di Madama Reale Cristina di Francia. Il nobile Sénantes, durante la sua ascesa nella scala sociale inizia un graduale accorpamento delle aziende esistenti nella Regione Carro, che lo porterà a possedere, verso la fine del Seicento, un’estesa tenuta di circa 260 ettari, adeguata al suo rango sociale.
    Il 30 aprile 1653 il Sénantes viene investito di parte del feudo di Borgaro e nel 1658 viene nominato Marchese, ed è proprio in questi anni che si può ipotizzare la costruzione della villa, e più precisamente tra il 1655, anno in cui viene acquistata la Cascina Chiurera, detta poi Santa Cristina, ed il 1657, anno in cui si cita per la prima volta in un contratto di affitto il nome di Santa Cristina.
    Il nome fu presumibilmente scelto in onore della moglie e della figlia maggiore, entrambe di nome Cristina, e probabilmente anche in omaggio alla Duchessa Cristina di Francia (la cui dama d’onore era la stessa moglie del Sénantes) che, come racconta il Cavaliere di Grammont nelle sue memorie, non disdegnava i pranzi, le cacce, le feste e i concerti che in Santa Cristina trovavano degna cornice alla sua regalità.
    Negli anni successivi il Marchese di Sénantes, definitivamente insediatosi nel Comune di Borgaro, incorpora gradatamente, via via che si rendono disponibili, le cascine intorno alla sua, tanto che nel 1688 (come risulta da un catasto conservato nell’Archivio Comunale di Borgaro) possiede una tenuta di 535 giornate, oltre le 280 prese in affitto, nel cui centro si erge la cascina con la residenza padronale costruita secondo i canoni delle ville più lussuose.

    Particolare degli affreschi che ornano il salone a due piani di Santa Cristina

    All’esterno un vasto giardino ed un’imponente peschiera, da cui partivano numerosi viali alberati che, collegando la villa con i paesi circostanti, dovevano rendere evidente la potenza che il Marchese di Sénantes aveva a quel tempo.
    Il palazzo seicentesco, di architettura estremamente semplice, doveva il suo antico fasto agli affreschi che ricoprivano l’intero edificio, affreschi ormai quasi scomparsi.
    Il portale d’ingresso era messo in evidenza da un’imponente cornice barocca, tutta affrescata con rappresentazioni di finti elementi prospettici che, inglobando anche le finestre sovrastanti, arrivava fino al tetto.
    Dall’ingresso si accedeva in un grande salone centrale a due piani, coperto da una finta volta, e tagliata a metà da una balconata in legno che correva tutto intorno al primo piano, con tutte le pareti interamente coperte da affreschi che rappresentavano una falsa architettura con lo scopo di amplificare lo spazio fisico disponibile.
    In questa finzione scenografica si inserivano affreschi di figure umane di aspetto popolaresco e talvolta comico, che svolgevano una ben definita azione teatrale; l’insieme è arricchito da integrazioni architettoniche, come medaglioni, cariatidi, putti, modiglioni, rappresentazioni mitologiche, tutte teatralmente inserite dentro i numerosi riguardi dell’ornamentazione.
    Sulla parete a sinistra, al piano terreno, un affresco ormai sbiadito rappresentava una veduta di Torino in cui si possono ancora riconoscere la Cittadella, il Palazzo Reale, il Palazzo Madama, il Duomo, Corso Francia, e in primo piano la Porta di Po.
    Dal salone si accedeva ad altre sale affrescate di cui una detta delle “quattro stagioni” aveva una volta a padiglione interamente affrescata con colori molto vivaci, dove coppie di prigioni sostengono quattro medaglioni contornati da finti stucchi, al cui interno sono rappresentate le quattro stagioni; altre scene allegoriche sono poste al centro della volta e negli sfondati che contornano le aperture della sala.
    In seguito alla morte del Marchese di Sènantes, avvenuta nel 1688, la tenuta passa alla primogenita, non avendo figli maschi, moglie di Angelo Isnardi de Castello Marchese di Caraglio, uno dei nomi più illustri del Piemonte di quel tempo.
    Verso la prima metà del XVIII secolo la Cascina subisce un progressivo ampliamento con l’aggiunta di tettoie lungo il perimetro della corte, tendendo a chiuderla.
    È di quest’epoca la costruzione, in sostituzione del giardino, della nuova corte di levante, con la realizzazione di una lunga tettoia addossata al muro di recinzione, e la Cappella viene ricostruita nell’angolo sud-est della sopraddetta tettoia, con forma turrile, a cui ne corrisponde una analoga nell’angolo opposto, dando nel loro insieme un’ imponenza maggiore all’ingresso, ed un aspetto di fortezza all’intero complesso.
    Anche il fabbricato civile subisce nel XVIII secolo delle ristrutturazioni, come le camere al piano terreno, a levante del salone centrale e destinate al personale di servizio, che vengono trasformate in salotti secondo i gusti e le mode del periodo, interamente decorate con piacevoli disegni di stampo orientale, le cosiddette “cineserì” tipiche dell’epoca.
    Alla morte, avvenuta nel 1770, dell’ultimo discendente dei Caraglio, Angelo Carlo, che già viveva per buona parte del tempo nel suo Palazzo di Torino, la tenuta di Santa Cristina non viene più utilizzata come residenza dei suoi numerosi eredi, se non per occasionali visite. La tenuta, sotto la direzione del Marchese Roberto Alfieri di Sostegno, procuratore generale dei coeredi, sarà interessata da numerosi interventi edilizi che si rendono necessari per sfruttare al massimo la struttura ai fini produttivi.

     

    Facciata della villa signorile di santa Cristina

    La manica laterale del palazzo viene trasformata in granaio e scompare la grande “peschiera” a ponente della Cascina, ancora presente sulla mappa del Catasto Francese del 1802.
    I maestosi saloni del Palazzo vengono affittati al fattore che li utilizza come semplici locali di deposito, dando l’avvio al rapido degrado degli affreschi. Nel cortile padronale viene impiantata una fabbrica della filatura, ed il maestoso giardino, di oltre quattro ettari di superficie, viene smantellato per essere trasformato in un prato utilizzato per stendere le tele dell’adiacente “biancheria” che inizia la propria attività nel 1770 per l’imbianchimento delle tele e del filo di lino e rista (canapa), salviette e tovaglie di lino e calzette di cotone.

    CORONA DI DELIZIE IN BICICLETTA


    Corona di Delizie in Bicicletta è un itinerario cicloturistico che l’associazione Fiab Torino Bici & Dintorni di Torino ha individuato e proposto alle amministrazioni pubbliche a fine Anni Novanta per valorizzare in modo sostenibile il circuito delle residenze sabaude che l’Unesco ha riconosciuto nel 1997 come bene dell’umanità.
    Pur componendosi di tratti di percorsi misti a basso traffico motorizzato o di ciclabili in sede propria per una lunghezza di 90 km, la fetta di dieci chilometri che va da Venaria Reale e la sua Reggia, e il castello di Santa Cristina nel comune di Borgaro Torinese ha la peculiarità di attraversare ambienti fluviali e non altamente suggestivi all’interno dei parchi di Corona Verde.
    Per chi non la conoscesse Corona Verde è la denominazione che Regione Piemonte ha dato circa vent’anni fa per accomunare una serie di progetti improntati sulla valorizzazione ambientale e sostenibile diffusi principalmente nell’area della provincia di Torino.
    Ed ecco che dopo anni di collaborazione tra Fiab e Regione tra le iniziative organizzate per festeggiare i 20 anni di Corona Verde si è concordato di inserire una pedalata definita breve che unisce i due luoghi legati ai Savoia, che si svolgerà il giorno sabato 18 settembre tra le 8,30 e le 12, particolarmente adatta a singoli o famiglie anche con minori purché accompagnati, che oltre a pedalare vogliano soddisfare le loro curiosità verso questi luoghi con particolare riferimento a Santa Cristina.
    In questo tour i partecipanti per un massimo di 25 persone verranno assicurati per eventuali e scongiurati infortuni ed accompagnati da soci volontari dell’associazione Fiab Torino Bici & Dintorni e di Corona Verde nonché da un appassionato, ed aggiungerei appassionante, storico locale che farà da cicerone.
    Chi preventivamente volesse iniziare ad avere informazioni su Corona di Delizie in Bicicletta può cercare sul web il sito: biciedintorni.it/blog/post-321-corona-delizie-bicicletta.php dove potrà scoprire la vastità di questo circuito in bici e i 68 punti che compongono i punti d’interesse individuati su di esso.
    A tutti i partecipanti verrà distribuito un prezioso opuscolo tascabile redatto da Fiab e stampato dal centro stampa regionale all’inizio del 2021 che potrete portare con voi nelle vostre future esplorazioni sull’intero itinerario una volta che avrete fatto il vostro “assaggio” il giorno 18 settembre. Sarete solo all’antipasto!
    Contattateci sul sito www.biciedintorni.it scrivendo a info@biciedintorni.it indicando il vostro Nome e Cognome l’età ed un vostro numero telefonico di riferimento e saremo ben lieti di avervi nel gruppo dei partecipanti. Controllate però prima l’efficienza della vostra bicicletta che affronterà i 20 chilometri del tragitto e fate indossare il casco ai minori ed a voi stessi per preservare la sicurezza che parte innanzitutto dal rispetto del codice della strada.

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