“La mia musica rimarrà per sempre. Può sembrare da stupidi affermare una cosa del genere, ma quando so come stanno le cose, io dico le cose come stanno.”
E ora, a 40 anni dalla sua scomparsa, siamo certi che la sua non era arroganza. Al di là delle canzoni, che sono diventate la colonna sonora del sud del mondo e che suonano freschissime e coinvolgenti oggi come allora, l’influenza di Marley sulla musica di tutto il pianeta, sulla cultura giovanile, sulla politica è stata davvero enorme. E tutto questo, oltre le contraddizioni che circondano un personaggio così complesso, fa di lui uno dei giganti del XX secolo.
Bob Marley se ne andò l’11 maggio del 1981 per un melanoma al piede destro, progredito fino al cervello. E pensare che appena 10 mesi prima era stato in Italia per due concerti che avevano trasformato la storia della cultura e della musica nel nostro Paese.
Il 28 giugno 1980 è una data storica per il Piemonte, perché in quella calda giornata, ai piedi delle Alpi arriva il profeta. Due le date italiane: San Siro a Milano e il giorno dopo al Comunale di Torino: il più grande evento musicale mai andato in scena nel capoluogo subalpino. Tutto inizia nel pomeriggio, con alcune band di spalla piuttosto insolite: Roberto Ciotti, bluesman romano scomparso nel 2013, Pino Daniele, a quel tempo non ancora famosissimo, che si esibisce con James Senese e Toni Esposito; e poi l’Average White Band, formazione funky che non viene dagli States ma dalla nebbiosa Scozia e che il giorno prima, a San Siro, è stata accolta dal pubblico nel peggiore dei modi. Dalla provincia si parte con ogni mezzo per raggiungere quello che pare essere l’evento del secolo, forse della vita. A Ciriè, su strada Torino, e poi più avanti, lungo tutta la provinciale, gruppetti di giovani fanno autostop per raggiungere il Comunale. Arriviamo allo stadio nelle prime ore del pomeriggio. Prima i controlli approssimativi all’ingresso e poi di corsa verso le tribune centrali, dove la domenica Sandro Ciotti, Bruno Pizzul e Nando Martellini commentano il campionato. Ero abituato allo spettacolo del Comunale durante le partite, ma ora lo stadio pieno sugli spalti e sul campo è qualcosa da togliere il fiato. Eppure quando, dopo le 16, si inizia a suonare, restiamo delusi: la musica si sente appena e i gruppi di spalla passano inosservati fra schiamazzi e gente che continua a giocare a pallone sul campo. Ma con il calar del sole, si entra in un’atmosfera quasi onirica. In molti accendono falò sul campo e anche sulla pista di atletica, che verrà danneggiata. Quando è buio, le luci sul palco si accendono ed è il momento del reggae. La resa sonora adesso è straordinaria e capiamo che nel pomeriggio era attiva solo una piccola parte dell’impianto audio. Ma Marley si fa attendere: i primi brani sono affidati alle voci delle I threes della moglie Rita. Poi all’improvviso compare lui e ovviamente è un tripudio. In molti concorderanno nell’affermare che la sua musica cadenzata ha avvolto lo stadio in una grande ipnosi collettiva. La stampa a quei tempi non era tenera verso le icone del mondo giovanile e il giorno seguente un quotidiano torinese, con indiscutibile cattivo gusto, scrive che Marley, più che un profeta, pareva un pugile suonato. Qualcuno dirà che, visto da vicino, sembrava molto più vecchio della sua età. In realtà era la malattia che lo stava già consumando. E il concerto di Torino fu uno degli ultimi del re del reggae.
Ma che cosa rappresentava Bob Marley per i ragazzi di quegli anni? Nel 1980 la politica aveva terminato di essere un elemento di aggregazione, ma era arrivato lui, da un’isoletta sconosciuta delle Antille, a catalizzare l’attenzione. La sua popolarità era enorme anche in Italia, ma di lui in verità si sapeva ben poco. Se qualcuno avesse girato fra i ragazzi del Comunale per un’intervista, sarebbe emerso che per la maggior parte di essi Marley era il simbolo di una vaga ribellione fricchettona: molti credevano che i suoi testi parlassero di “canne” e libertà in terre tropicali incontaminate e il vero messaggio era quasi del tutto ignorato. Quando un giornalista della Rai lo avvicina all’aeroporto, Marley parla di rastafarianesimo, del messia Hailè Selassiè, di lotta contro il Babylon System, il sistema economico dei bianchi basato sul denaro, ma le sue parole restano oscure per i più. Anche io ero fra questi, ma l’intervista fece nascere in me molta curiosità. A quei tempi però non era come adesso, che ti bastano pochi istanti per accedere a tutto lo scibile umano. Libri in italiano sull’argomento non esistevano e trovare informazioni su fenomeni che non rientravano nel sapere ufficiale era impossibile. Sapevo qualcosa da un amico che era vissuto per alcuni anni in Inghilterra, a contatto con la comunità giamaicana, ma si trattava di informazioni superficiali.
Venni in contatto diretto con il mondo rasta solo diversi anni dopo, durante un viaggio a Barbados, nelle Antille. Barbados non è la Giamaica, ma la comune matrice anglosassone la assimilano per molti aspetti all’isola di Kingston. Fu su una spiaggia nella costa meridionale che conobbi un giovane rasta di nome Simon, un ragazzo intelligente e curioso, che voleva sapere tutto dell’Italia, delle sue città, della politica, persino di Berlusconi, che in quegli anni si stava affacciando sulla scena. Ma soprattutto mi chiedeva di raccontargli ogni dettaglio del concerto del 1980. In cambio mi parlò molto di rastafarianesimo e di tutte le sue implicazioni nella vita quotidiana, ben al di là dei soliti luoghi comuni.
Nel frattempo in Italia Stampa Alternativa aveva pubblicato “Rasta” di Carlo Scibilia. Il libro oggi è introvabile, ma l’editore l’ha reso disponibile all’indirizzo http://www.stradebianchelibri.com/scibilia-carlo—rasta.html .
Questo millelire, nelle sue 61 pagine offre una panoramica sintetica ma puntuale del fenomeno, a partire dal pensiero del filosofo Marcus Mosiah Garvey. Alla fine degli anni Venti Garvey fece conoscere una profezia della Bibbia amarica, ovvero l’incoronazione in Africa di un Re nero, che avrebbe cacciato il colonialismo, estirpato il male e preparato il continente nero al ritorno della sua gente.
Quando il 2 novembre 1930 Ras Tafari Maconnèn fu incoronato imperatore dell’Etiopia con il nome di Hailè Selassiè, i giamaicani videro l’avverarsi di questa profezia e diedero vita al rastafarianesimo .
Ed è nel 1935 che in questa storia entra anche il nostro paese, quando l’Italia fascista invade l’Etiopia con un’occupazione feroce, fatta di gas chimici e stermini di massa. Poco prima della caduta di Addis Abeba, il negus sceglie l’esilio volontario in Inghilterra con buona parte della famiglia reale.
E qui entra in scena, imprevedibilmente, anche Torino, con una storia che quasi nessuno conosce.
È la vicenda di Romane Worq, la figlia primogenita del Ras Tafari che rifiuta l’esilio e resta in Etiopia a combattere in prima linea. Ferita in combattimento, viene deportata prima nel carcere dell’Asinara e in seguito a Torino dove vive i suoi ultimi anni e muore di tubercolosi ad appena 27 anni, nel 1940. Da questa storia, in occasione degli 80 anni della scomparsa, abbiamo creato in collaborazione con la FARI, Federazione delle Assemblee Rastafari Italia, il progetto Romane Worq, che si è attuato solo parzialmente a causa del covid, ma che ha dato il via ad un album in progress e che è tuttora in attività.
Uno dei primi pensieri che rimasto in mente dopo aver conosciuto la storia di Romane Worq mi riporta proprio a Bob Marley e al suo arrivo a Torino nel 1980. Probabilmente il musicista giamaicano sapeva ben poco di questa grigia città dell’Italia del Nord. Per lui era solo una delle tante capitali industriali del Babylon System. Ma come sarebbe stato il suo arrivo se avesse saputo che proprio qui era sepolta la figlia primogenita del Ras Tafari, la giovane, bellissima Romane Worq, morta ad appena 27 anni, dopo aver lottato in prima linea contro la ferocia dei colonialisti bianchi? Avrebbe forse dedicato una canzone a Torino e alla triste principessa etiope?