Il Natale è sotto molti aspetti un tormentone, ci obbliga a tutta una serie di rituali, preparativi, gestione di programmi culinari, perché è soprattutto questo il suo aspetto predominante.
Quest’anno c’è, o meglio c’è stato un tormentone in più: non sia mai che ci venga in mente di dire Buon Natale ma semplicemente Buone Feste! Questo in base ad alcune linee guida emanate, e per fortuna subito ritirate, alcune settimane fa dalla Comunità Europea nell’ambito delle uguaglianze. Quindi il Buon Natale de noantri diventerà Buone Feste. La discussione è proseguita nei giorni successivi e alla luce delle proteste e delle polemiche che si sono susseguite la stessa commissione è arrivata alla conclusione
che la suddetta norma andrà approfondita. Nel frattempo possiamo continuare a prepararci secondo quanto la tradizione ci impone. Rivado spesso ai Natali della mia
infanzia, al ricordo dei cibi semplici, preparati con ciò che l’orto di casa aveva prodotto nei mesi precedenti, ai pacchi rimasti rigorosamente nascosti, ai lavoretti preparati a scuola.
Oggi il Natale si è spogliato, lo abbiamo spogliato, dei suoi significati primitivi: la natività, con i suoi simboli più preziosi; la gioia di una nuova vita dopo il tempo dell’attesa; la sacralità dell’evento che avviene in una stalla; gli animali più umili a vegliare, i pastori e i loro semplici doni…
Il presupposto è una fede che ha radici nella cultura contadina e povera. Il Natale cadeva nel periodo in cui il lavoro permetteva una piccola pausa, le famiglie potevano ritrovarsi, condividere la gioia dell’attesa, il senso più autentico del dono, il valore delle piccole cose.
Il nostro Natale parte da luci troppo forti, da musiche troppo assordanti, dai sapori troppo
intensi, dai regali troppo sfarzosi e spesso inutili. Tralasciando i sentimenti e la condivisione, un percorso che dovrebbe durare tutto l’anno e non rivelarsi solo in questo periodo.
La preparazione comincia a metà novembre ma raggiunge la sua massima espressione da inizio dicembre a salire, con proposte culinarie luculliane, arte del regalo spinta al massimo, alberi di Natale e addobbi che rasentano il cattivo gusto. Difficile sottrarsi o rimanere estranei, si entra inevitabilmente nel vortice, nella corsa dei regali, dimenticando che il regalo più bello è il tempo che riusciamo a dedicare, giorno dopo giorno, a chi ne ha bisogno, a chi è in difficoltà. Basta un messaggio, la dimostrazione
che abbiamo avuto un pensiero, questo dovrebbe essere il nostro Natale di tutti i giorni.
Ovviamente è anche la tavola imbandita, il desco, la condivisione del cibo intesa come
offerta dello stesso, accoglienza e affetto, la riunione delle famiglie, un tempo più numerose e povere, dove ognuno cucinava qualcosa e lo portava per dare un senso di maggiore abbondanza. Il desco inteso come incontro e riunione fra chi vive lontano e ha modo di vedersi di rado. Lo scorso Natale il lockdown ha impedito in parte questo fra chi, in ambito familiare, vive a grandi distanze. Si è vissuto il Natale in solitudine, come la Pasqua, lo scambio dei regali è avvenuto utilizzando i corrieri, gli auguri fatti dagli schermi dei telefoni. Ho la fortuna e nessun merito di avere sempre pensato che le persone sono ciò che i loro sentimenti rivelano al di là del colore, dell’etnia, della religione professata e questo è stato ed è profetico. Il mio Natale, sperando che il maledetto Covid non ci
metta lo zampino, sarà il primo Natale da suocera di una deliziosa ragazza turca e musulmana, il primo Natale da nonna di un meraviglioso pargolo non battezzato figlio di genitori non sposati. Tutte queste persone hanno un filo che le unisce al di là del legame familiare: l’amore che va al di sopra di tutto il resto, nel rispetto di ogni credo e convinzione.