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domenica, Ottobre 13, 2024

    L’ultima vendemmia di Lino Maga, vignaiolo ‘ostinato e contrario’


    90 anni e 84 vendemmie, amava ripetere a chi aveva la fortuna di scambiare due chiacchiere con lui. ‘Lui’ era il Commendatore Lino Maga da Broni, Oltrepò Pavese altrimenti noto come Vecchio Piemonte, il “Mister Barbarcarlo”. Autentica leggenda del mondo del vino, Maga – classe 1931 – non vedrà la vendemmia numero 85: si è spento la notte dello scorso Capodanno nella stessa discrezione con cui aveva vissuto. Una leggenda, quella di Maga, legata indissolubilmente al suo vino icona, appunto il Barbacarlo, alla lettera ‘zio Carlo’, nome figlio di una battaglia legale durata ben ventidue anni. Lo zio Carlo era il bisnonno che alla morte avvenuta nel 1884 regalò la collina chiamata del Porrei ai nipoti, i quali per riconoscenza due anni dopo le diedero il suo nome e iniziarono a produrre il vino della vigna Barbacarlo. “Mi sono trovato con un decreto (quello del 1970 che istituiva la Doc dell’Oltrepò Pavese, ndr) dove attribuivano al Barbacarlo una denominazione su 45 comuni. Ho dovuto impugnarlo e la causa è durata 22 anni” ribadiva ad ogni occasione. Vigna Barbacarlo, quindi: 8 ettari coltivati a vite su una proprietà totale di circa 18, riconosciuti come un appezzamento privato ancora più esclusivo di un ‘Monopole’ francese; una sottozonazione la cui mappa catastale è riportata nella retroetichetta di ogni bottiglia a sigillare per sempre l’unicità del vino in essa contenuto e che il freddo linguaggio leguleio definisce ora ‘Marchio commerciale di proprietà’.
    Il Barbarcarlo di Maga, vino simbolo di un territorio intero la cui produzione è da tempo affidata al figlio Giuseppe, è composto da Croatina, Vespolina (o Ughetta di Canneto) e Uva Rara, più un residuale 5% di Barbera, qualche vite di Freisa e sparuti vitigni rari e ormai dimenticati, tutte da vigne vecchie di almeno 40-60 anni impiantate a 300 metri s.l.m. su un terreno tufoso e ghiaioso esposto a sud-ovest con pendenze fino al 70%. Viene vinificato con metodo che più tradizionale non si può: in vigna nessun diserbante, solo rame e zolfo contro l’oidio; in cantina le uve vengono messe nei tini, poi pigiate e diraspate. Al termine di questa lavorazione completamente manuale, il prodotto finisce di nuovo in vecchi tini di rovere – ciascuno chiamato col nome di un famigliare – dove viene effettuata la macerazione per 7/8 giorni, infine si procede con la svinatura e la torchiatura. Da un quintale e due di uve non escono più di cinquanta litri di vino, poi i primi travasi diventano veloci per toglierlo dalle fecce, ed a ogni quarto di luna vecchia viene travasato di nuovo. Maga non ha mai usato filtri, solo decantazione; dopo otto mesi di tino, l’imbottigliatura a fine aprile/maggio dell’anno successivo alla vendemmia, con le bottiglie posizionate orizzontali per cinquanta giorni: “Fanno amicizia con il turacciolo – poeteggiava il Commendatore – dopo le mettiamo verticali, e il consumatore poi per trenta o quarant’anni sta tranquillo.”
    In realtà, può stare sì tranquillo sulla qualità complessiva del vino, che ad eccezione di qualche possibile influenza nefasta della Tca (l’odiato ‘sapore di tappo’) mantiene nel tempo una coerenza di profumi, aromi e sapori che spazia dall’invidiabile all’impensabile con qualche sconfinamento nell’incredibile. Diverso, molto diverso, è invece il discorso sul tipo di vino: chi apre una bottiglia ad esempio del 2005 si troverà di fronte qualcosa di “altro” rispetto a un fratello di appena un anno più giovane, o maggiore. Figlio legittimo e irripetibile di quella particolare annata, ogni millesimo possiede caratteristiche ed eleganza proprie che restituiscono una bevanda potente, imperscrutabile, indefinibile e in perenne fuga dalle classificazioni buone per le guide, assieme a una certa aura di epico romanticismo contadino nel quale taluni detrattori ritengono che a volte il Commendatore si crogiolasse con finta noncuranza, soprattutto quando ricordava le celebri lodi giornalistiche di Gianni Brera e Luigi Veronelli o di averlo servito alle tavole di Papi, Presidenti, Capi di Stato stranieri, artisti di fama mondiale e compagnia cinguettando. Di ogni annata Maga ha sempre anticipato in etichetta la caratteristica più evidente: “Amabile”, “Secco”, “Spumeggiante”, “Fermo”; per cui potreste bere come è capitato a me qualche anno fa un Barbarcarlo del 2001 ancora teso, dalla spuma fitta che si esaurisce rapidamente, con una spiccata nota balsamica unita ad alcol e acidità ai più alti livelli, e subito dopo incappare in un 1998 zuccherino, di effervescenza delicata ma persistente, in cui dominano i frutti rossi e prugne assolate e il cui sorso è grasso e ampio, davvero da ‘vino dolce’. I cambiamenti climatici degli ultimi anni stanno influenzando anche il risultato delle vendemmie, tanto che da un paio di lustri la natura inclassificabile del vino di Maga sembra essersi lievemente stemperata in una tavolozza dove alcuni colori ricorrono con maggior frequenza. Ciò nonostante, da queste parti circola ancora la voce che sul Barbacarlo vegli sornione l’Arcangelo Gabriele, come se uno sguardo soprannaturale calato direttamente dalle Sfere Celesti potesse essere la sola spiegazione della sua irrazionalità tecnico-concettuale e dell’impossibilità di prevederne gli esiti in bottiglia. Visto il nome che porto, sarei molto propenso a prendere per buona la vox populi, che come si sa è anche vox Dei, ma temo che il motivo sia molto meno estatico: secondo la fisica, il Bombo non potrebbe volare. Unica cosa: mai dirlo al Bombo. Ecco. Lo stesso vale per il Commendator Maga Lino e il suo Barbacarlo: lo hanno spesso descritto come un uomo ruvido ai limiti dello scontroso, arroccato sulle sua idea di vino da molti ritenuta arcaica e demodé (per dirne una, la sua cantina non ha un sito web e verosimilmente mai l’avrà). La realtà è che Maga è stato un uomo integro, tutt’uno con la sua coppola in lana scozzese, la sempiterna camicia a scacchi da boscaiolo e i suoi vini, altrettanto integri e indomabili; quella patina burbera mista alla voce che le sigarette accese e spente una dietro l’altra rendevano aspra come la carta vetrata ma profonda come il crepitio di una fiamma invernale di camino celavano, in fondo, l’onestà della conoscenza guadagnata sporcandosi le mani nella terra e la pacificazione di un uomo con i propri dubbi e le proprie incertezze.
    “Ogni tanto bisogna ricordarsi di dire che il vino sa anche di uva” ammoniva senza giudizio.
    Sipario. Tibi sit levis terra.

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