Augurare una buona Pasqua è d’obbligo, ma non c’è gioia nel farlo.
La resurrezione è lontana, lo spazio se lo sta prendendo l’abisso nel quale stiamo precipitando.
Settant’anni di pace – a volte sì armata, ma comunque sempre pace – ci avevano illuso che il buio della ragione potesse non tornare. La considerazione di Primo Levi,“se è successo, vuol dire che può succedere ancora”, persa nella retorica di commemorazioni sempre più lasche e stanche.
Ora che urlano nuove foibe, nuove Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, ci accorgiamo di non avere vocaboli a sufficienza per dire l’orrore.
Pensavamo d’essere immuni dalla guerra, dalla più infame delle tragedie e invece è di nuovo qua col suo carico di morte.
La prima guerra “ social” sbatte in faccia, porta agli occhi ciò che un tempo il racconto attenuava, diluiva, stemperava in uno tempo-spazio remoto, lontano da noi.
A cosa ci costringono quei poveri corpi inanimati lasciati per strada, lo spregio della vita, lo sfregio che entra nelle nostre comode calde case?
A riconsiderare la nostra semenza, la primitiva brutalità insita nell’uomo.
Sembra entrare nelle narici il fetore di quelle strade ridotte a brandelli, provoca dolore incommensurabile pensare agli ultimi istanti di quella povera gente falciata e giustiziata.
Qualcuno ipotizza che propaganda e false notizie ci ottenebrino la mente, ma la realtà non può essere mistificata, non possono essere un colossale abbaglio i palazzi sventrati dalle bombe, le troppe vite spezzate, la moltitudine di giovani, d’ambo le parti, mandati al macello, il fiume d’odio che per secoli irrorerà di nuovo e di sangue l’Europa.
Ci fosse razionalità, si capirebbe in che follia ci hanno precipitato, ma così non è.
Non c’è nulla che possa giustificare una guerra, ma le motivazioni sono sempre le stesse: razza, religione, possesso e non c’è verso di modificare le ore più buie della storia.
Leggetevi questa poesia che Trilussa, il grande poeta romano, scrisse nel 1914, quando stava per entrare nel pieno la Prima Guerra Mondiale e ditemi quanto d’attuale ci sia ancora. Il ‘900 non ci ha proprio insegnato nulla.
«Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna(…)
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili.
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Ché quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finché dura sto macello:
fa la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!»
Amen.