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martedì, Dicembre 3, 2024

    Tre anatre e un pesce

    Piazze Amiche – novembre 2022
    Il cambiamento climatico è in atto. Sotto gli occhi di tutti. Con effetti, oltre che su di noi, che ne siamo le cause, anche sul mondo animale. I due racconti brevi che vi proponiamo parlano di animali acquatici, in “cattive acque” (perdonate il troppo facile gioco di parole) per gli sconvolgimenti innescati dall’uomo. Ho “pescato” (tanto per rimanere in tema) i due testi dal blog www.spuntidivista.blog di Alberto Vicentin, che abbiamo già incontrato in precedenti numeri di Piazze Amiche, nella sua veste di direttore responsabile della testata mensile “In Paese”, edita dalla Pro Loco di Brendola (Vicenza).

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    Tre anatre e un pesce
    Oggi la Risarola si è spenta. Un lento affievolirsi della corrente, un graduale riemergere dell’alveo, prima i piedi degli argini, poi via via isole e penisole di fondale, ed oggi si è fermata del tutto.
    Com’era successo nell’estate di diciannove anni fa, quella volta che incontrai le tre anatre e il pesce. Come non era mai successo prima a memoria d’uomo, o almeno così si disse allora. E allora di memoria ce n’era di più, c’erano archivi di ricordi ed esperienze che il tempo si è fatalmente portato via. C’era, tra tante, la memoria di mia nonna, che da mezzo secolo presidiava il corso della roggia e che oggi non c’è più.
    C’era anche, fino alla secca del 2003, la certezza che la Risarola non si sarebbe mai seccata, che il suo placido, discreto flusso di acqua giovane, adagiato nel solco tra ali di campagna, non si sarebbe mai arrestato, che le sue risorgive, appena 1500 metri in linea d’aria, direzione nord-ovest, mai avrebbero smesso di risalire e ribollire dai cunicoli del sottosuolo. D’altra parte ci sarà un motivo se si chiama Risarola, buona in un qualche passato per garantire l’allagamento delle risaie (così si narra, e chissà se è vero), e ci sarà un motivo se questo posto si chiama Fangosa e galleggia su un letto d’acqua, esposto in un qualche passato a ricorrenti e invadenti alluvioni, finché il grande bacino venne costruito a monte per imbrigliare ed ammansire le furie torrentizie (così si narra, e può essere vero).
    Acqua, quindi, a segnare il territorio ed a bagnare le sue storie. Di quando i tosi andavano giù al canale, in fondo dove si tuffa la Risarola, e là anche loro si tuffavano e sguazzavano. Di quando nei fossi con le nasse si pescavano marsoni, gamberi e addirittura anguille e sotto il portico si faceva la frittura di campagna col pescato di giornata. Di quando alla molonara da Mario le angurie stavano in fresca direttamente in roggia, a galla nella corrente, trattenute da una recinzione anfibia e sempre pronte per la selezione acustica (toc toc) ed il taglio artistico sul tavolone con la cerata. Di quella volta che un maiale scappò dal recinto e tanto corse in mezzo ai campi che finì nelle risorgive dell’Anguissolo, fratello minore della Risarola, dove cadde nel pantano gorgogliante e nessuno lo trovò più. E di quando, nell’estate del 2003, alla prima e, fino a ieri, ultima secca degli annali della Risarola, vidi in una pozza d’acqua ormai ferma un pesce girare in tondo, e di tanto in tanto lanciarsi verso un rigagnolo di collegamento con una pozza più grande, una sorta di guado al contrario, ma ogni volta virare e tornare indietro perché lì, appostate al varco, per dispetto o per orgoglio, stavano tre anatre, guardinghe e chiacchierone, pronte a centrare a beccate il pesce non appena si avvicinasse nell’acqua bassa. Allora presi una frasca e, agitandola verso le anatre, le allontanai per qualche istante, giusto il tempo di far passare il pesce. Lui se ne andò veloce, senza voltarsi, e loro mi starnazzarono qualcosa di facile interpretazione.
    Negli anni a seguire, sbirciando in roggia, mi è capitato talvolta di aspettarmi che il pesce tornasse a salutare e che le tre anatre impettite mi aggredissero a beccate. Naturalmente non ho più visto né l’uno né le altre. Ma in effetti neanche la Risarola spenta avevo più visto da allora. Fino ad oggi.

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    Alberto Vicentin

    La lontra che non c’è
    Da queste parti la lontra s’incontra spesso. All’ingresso di un palazzo antico che ospita un museo, nell’insegna di una trattoria e sul manifesto di un evento, nei segnavia e nelle targhe che raccontano i luoghi, nei libri di storia locale e nelle locali storielle di strada. Eppure, da queste parti la lontra non c’è. O perlomeno non c’è più.
    Curioso che per meritare attenzione e credito capiti di dover svanire.
    Si dice comunque (e chissà se c’è del vero) che la lontra sia addirittura l’artefice della vallata. Un tempo lontano qui era tutto lago, dicono, un invaso ampio e placido alimentato dai tanti torrenti e arginato a valle da una diga naturale, giusto all’imbocco dello stretto canalone in cui le due ali di montagne convergono e quasi si chiudono, strozzando in un’orrida feritoia la via d’uscita. Per andarsene, sbattendo e spumeggiando tra pareti a picco, l’acqua doveva prima arrampicarsi fin sopra la diga. Qui, sulla barricata ancestrale che governava il lago, proprio qui una lontra venne ad insediarsi, e scavando spostando trafficando armeggiando con terra tronchi pietre e ramaglie tanto fece che finì per aprire un varco e il varco presto si spalancò e liberò l’acqua del lago. C’è da immaginarsi lo scroscio crescente ruscellare giù per il canalone mentre alle sue spalle il fondovalle, pur fradicio, veniva finalmente alla luce, con la lontra aggrappata sulla sponda ad osservare perplessa e a chiedersi: “E mo’?”
    E mo’ la spianata valliva era bonificata ed ecco che arrivarono i fiori e gli alberi e poi gli animali di terra e tra questi l’animale più intraprendente e invasivo di tutti, il quale costruendo case tracciando strade coltivando campi imbrigliando acque e domando i boschi si fece largo. La lontra dovette ritirarsi in disparte, e dove intralciava fu allontanata, e dove infastidiva fu cacciata.
    Si dice (e chissà se c’è del vero) che l’ultimo avvistamento risalga a meno di un secolo fa, durante i lavori di costruzione di un’altra diga, artificiale stavolta, in mezzo all’orrido canalone. Fu un operaio del cantiere a scorgerla, pare, proprio sulle sponde del bacino in formazione, e questi ne diede festosa e orgogliosa notizia a tutti i compagni, “Ho visto una lontra!” annunciava, non prima di averla raggiunta con una fucilata. Si sa mai che svicolasse fuori vista o che facesse danni. Era l’ultima e da allora non se ne videro più da queste parti, se non disegnate, scolpite e narrate.
    Si dice però (e chissà se c’è del vero) che lassù fuori mano, nei pietrosi ristagni d’alta quota, nelle cascate nascoste dentro le inaccessibili forre boscose e nelle cavità labirintiche che solleticano il ventre della montagna, lassù qualche lontra ci sia ancora. Non vista, non udita, saggia discreta e paziente. In attesa, forse, che torni il suo turno.

    Alberto Vicentin

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    Paolo Ribaldone
    Paolo Ribaldone
    Dopo una vita dedicata ad Ampere e Kilovolt, ora dà una mano a Cose Nostre

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