Nel maggio del 1967 esce per la piccola casa editrice fiorentina LEF un libro dal titolo Lettera a una professoressa.
L’hanno scritto don Lorenzo Milani e gli alunni della scuola di Barbiana, una canonica del Mugello a pochi chilometri da Firenze. Un luogo sperduto dell’Appennino, afflitto, ancora negli anni del miracolo economico, dalla miseria e dall’arretratezza. Un luogo di esilio dove don Milani, giovane prete fiorentino, è arrivato il 7 dicembre del 1954, a 31 anni, emarginato dalla Curia di Firenze che lo riteneva troppo franco e poco felpato nei toni e troppo vicino agli emarginati. Niente acqua, né luce, né una strada per arrivarci. Ci vivevano quaranta anime.
È qui che Don Milani, maestro, dunque, prima ancora che prete, fonda la scuola popolare e inizia il suo impegno: dare alla gente, di cui è spiritualmente responsabile, il massimo possibile di acculturazione nel senso di conoscenza, ma soprattutto di capacità critica. Egli è convinto che solo la cultura possa aiutare i contadini a superare la loro rassegnazione e che l’uso della parola equivalga a ricchezza e libertà.
Proprio a Barbiana nasce quindi il testo più noto di don Milani e della sua scuola, Lettera a una professoressa, il libro di una generazione, il “Libretto rosso” del movimento del Sessantotto italiano, vademecum di ogni insegnante democratico per anni.
La Lettera è un documento di denuncia scritto dai sui ragazzi a seguito della bocciatura di tre loro compagni all’esame di ammissione magistrale. Il testo è rivolto direttamente all’insegnante: “ Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato tanto a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate.”
Nella Lettera i ragazzi scrivono:
“…perché il sogno dell’uguaglianza non resti un sogno, vi proponiamo tre riforme:
1. Non bocciare
2. A quelli che sembrano cretini dagli la scuola a tempo pieno
3. Agli svogliati basta dargli uno scopo.”
Il cuore della lettera e di tutto l’insegnamento di don Milani non sta però nel non bocciare, o nel disobbedire, quanto nel ben più impegnativo dare tutti gli usi della parola a tutti.
“Un analfabeta”, come dice un vecchio contadino alla Rai degli Anni Sessanta, “è cieco”, e proprio per questo motivo, Don Milani sceglie la parola, la lettura, insegna a vagliare, criticare, stabilire confronti, a scegliere la fonte, il documento, affinché ognuno si senta responsabile di tutto, così come è scritto in un’altra Lettera famosa del prete di Barbiana, quella ai giudici che lo accusavano di aver difeso l’obiezione di coscienza :
“Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”, è il motto intraducibile dei giovani americani migliori: ‘Me ne importa, mi sta a cuore’, il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’.”
Eppure, Don Milani sarà criticato esasperatamente, soprattutto dal mondo intellettuale che considererà persino il suo pensiero, la sua filosofia pedagogica la causa scatenante di una scuola permissiva e ideologicamente antiselettiva. A lui saranno ricondotti molti dei mali che minano il mondo scolastico italiano, arrivando persino a ventilare, a cinquant’anni dalla sua morte, una sua possibile omosessualità.
Una lettera ha un potere devastante, più del tritolo, e può scatenare reazioni infamanti…
E così, oggi, in un’Italia ben diversa da quella della Ricostruzione del prete di Barbiana e dei suoi ragazzi, ancora una Lettera, questa volta di una professoressa ai suoi allievi, deflagra a livello socio-politico.
La Preside del Liceo Leonardo Da Vinci di Firenze reagisce alla violenza squadrista di un gruppo di giovani contro degli studenti di un altro Liceo cittadino, scrivendo un comunicato in cui stigmatizza l’accaduto e, soprattutto, ricorda ai ragazzi quanto sia importante essere consapevoli che è in momenti come questi, dove spesso prevale l’indifferenza, che i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni.
Insomma, la Storia insegna e la memoria deve essere costantemente alimentata.
Parrebbe un messaggio doveroso da parte del mondo scolastico, ma non per il massimo esponente di quel mondo… il Ministro dell’Istruzione, che ha persino ravvisato, nelle poche righe di quella lettera, giusti motivi per prendere provvedimenti nei confronti della Preside, rea di subdola politicizzazione…
Lascio a Don Milani la risposta all’esimio Ministro Valditara, con un ultimo stralcio della Lettera ai giudici:
“A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi.”