Dopo un’infinità di rimandi, la prima esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven venne fissata per il 7 maggio 1824. Grazie alla Società degli Amici della Musica l’orchestra era stata trovata e in qualche modo rinforzata; si era scovata una vittima sacrificale che la dirigesse (Michael Umlauf), mancavano strumenti ad arco ma Beethoven riuscì a farseli prestare da un collezionista. Un folto coro, benché costituito da dilettanti giovani o giovanissimi, era stato assemblato, e si erano effettuate parecchie prove di concertazione. Le prove generali, incredibilmente, furono solo due, entrambe al limite del catastrofico. La necessità che Beethoven presenziasse creava grossi problemi, la sua pretesa di seguire sullo spartito ciò che avveniva in orchestra era squilibrante; anche con la migliore capacità di lettura il tempo reale degli esecutori era enormemente diverso da quello di lui che leggeva; girava sempre le pagine dopo che l’orchestra aveva finito il passaggio. Alla fine Umlauf, con un espediente di successo, gli lasciò il posto sul podio, però, dietro alle sue spalle, o subito di fianco, si mise a dare lui stesso il tempo agli orchestrali. Se pensiamo alla complessa orchestrazione della sinfonia, al groviglio di tempi e contrattempi, al tremendo impatto fonico da gestire, si resta stupiti che in tali condizioni l’impresa sia potuta giungere a buon fine.
Inizialmente Beethoven, per le insistenze del re di Prussia (dedicatario dell’opera), aveva pensato di farla eseguire a Berlino, ma ciò aveva sollevato le ire dei viennesi. Ci furono lettere di protesta sui giornali, si chiese alle autorità di intervenire, si raccolsero firme, e alla fine la prima restò a Vienna. Ma trovare un posto dove collocarsi fu difficile, visto che, invece di un teatro, il compositore avrebbe preferito una sala o saletta… “Beethoven vuole dare la sua nuova sinfonia in un guscio di noce!”, ridevano i viennesi, sapendo come l’esecuzione coinvolgesse circa 250 esecutori (si suonavano anche altri brani corali, fra cui alcune parti della “Missa Solemnis”). Alla fine fu deciso per il Kartnerthor Theater, il Teatro di Porta Carinzia, in grado di ospitare tutti, suonatori, coristi, solisti, nonché uno stipatissimo pubblico.
Era giunta la mattina del 7 maggio e bisognava per lo meno trovare l’abito da mettersi. Gli amici si erano accorti che il compositore non disponeva di un frac nero e che l’unico abito abbastanza nuovo era verde. “Perché verde?”, gli chiesero in molti; lui non seppe dire perché due anni prima, dal sarto, avesse scelto quel colore. Non c’era il tempo per affittare un frac nero. Decisero che siccome la sala era abbastanza male illuminata, il verde poteva passare per nero. “Devi farti tagliare i capelli”, gli disse il nipote Karl. E dopo il taglio scherzò: “Il vero Maestro è chi te li ha tagliati!”. Da giorni le due ragazze, Henriette Sontag e Caroline Unger, rispettivamente soprano e contralto (che in quei giorni stavano cantando Rossini!), benché onorate d’esser state prescelte, cercavano di non mostrare troppo visibilmente il terrore per le parti impervie. “Ma perché scrivi così alto?”, domandò il nipote. Anche il basso ebbe dei problemi di “alto”, infatti alla vigilia si ritirò, a causa dei fa diesis, e fu sostituito da un certo Seipelt, ansioso di passare a tutti i costi alla storia. Un amico confermò che c’erano anche grosse difficoltà nel recitativo strumentale: “I sei contrabbassi non riescono a eseguire insieme nel tempo giusto”, disse uno; Beethoven gli gridò contro qualcosa. “Rimanga calmo, non parlo più”, rispose l’altro.
Fu in quel substrato elettrico e denso di attesa che avvenne la prima esecuzione (tutto sommato non così deficitaria come si temeva). E non si può non ammirare la capacità di pronta risposta del pubblico viennese di fronte a una simile creazione. Anche se sconcertato dalla massa di novità che gli venivano proposte, dimostrò un’apertura mentale inaudita. Alla fine le cronache parlarono di applausi fragorosi, di tempeste d’acclamazioni, d’una standing ovation mai vista. Beethoven, rimasto con gli occhi sullo spartito e le mani sul leggio, forse ancora inseguendo, attraverso il plancito, le vibrazioni di risonanza, dava le spalle al pubblico e non si accorse di nulla finché Caroline Unger non gli si avvicinò e lo invitò a girarsi: allora vide con stupore tutta la sala in un urlante sventolio di cappelli e fazzoletti. “Mai in vita mia ho visto degli applausi così esaltati”, scrisse un amico. Purtroppo il risultato economico, per incompetenza gestionale, non fu quello atteso. La sera stessa, alla cena in una trattoria del Prater, Beethoven, vedendo i conti, fu travolto da una rabbia quasi disperata.
A quel tempo la sola fonte di guadagno dei compositori consisteva nella vendita dei loro spartiti agli editori, o in seconda, nel ricavo da concerti o “accademie”. Potevi anche essere conosciuto in tutto il mondo, come Beethoven, ma la proprietà intellettuale non era tutelata per cui, venduta un’opera, essa poteva anche venire eseguita un milione di volte, ma in tasca all’autore non entrava più niente. Nel caso della Nona le sorti migliorarono alla seconda esecuzione che, con la stessa compagine, fu data il successivo 23 maggio nella Grosse Redoutensaal. Dopo poco già venne eseguita a Londra, inaugurando quel percorso nel mondo che sarebbe stato inarrestabile.
Beethoven, un frac verde per la Nona
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