È uno di quei documenti dell’arte che non s’immagina di trovare e che, quando ci si trova davanti, ti conferma, se mai ce ne fosse bisogno, quanto sia vasto il nostro patrimonio di bellezza, in qualche caso, come quello descritto in queste pagine, poco noto alla maggioranza.
Si trova a Romagnano Sesia, nel centro storico e un fiore della pittura del Quattrocento. Stiamo parlando della “Cantina dei santi”, che qualcuno ha ribattezzato “Cantina di Re Artù”… Tra breve vedremo perché.
Anche per la “Cantina dei Santi” vi sono comunque alcune incertezze sulla denominazione: la incontriamo per la prima volta in un documento del 1777, un inventario “de’ Beni dell’Abbazia di San Silvano di Romagnano”, ma quasi sicuramente quel luogo doveva essere indicato così già da molto tempo.
Sulla base delle fonti note risulta che quel vano utilizzato come cantina e faceva parte della millenaria abbazia benedettina di San Silvano, centro monastico di notevole importanza dell’area novarese.
Una cantina di tutto rispetto, se si considera la notevole estensione degli affreschi che la decorano e non ultima la qualità delle pitture.
Strutturalmente, la “Cantina dei Santi” è costituita da un corpo di fabbrica seminterrato, a ridosso e in parte sovrastato da altri; si compone di un ampio atrio a doppio portico, a cui è accostato un altro portico più recente (XVIII secolo). Dal portico più antico si accede a due locali, uno dei quali decorato con un ciclo di affreschi risalenti alla seconda metà del XV secolo.
La ricostruzione della struttura del corpus pittorico consente di stabilire che, nella sua forma originale, era scandito da ventotto scene, alcune ormai illeggibili o scomparse.
Tipologicamente si tratta di un’esecuzione che può essere ascritta al cosiddetto “stile cortese”, in cui primeggia tutta una serie di elementi che offrono uno spaccato della “moda” del periodo, sia per quanto riguarda l’abbigliamento, ma sono anche molto ben raffigurate armi, corazze e altri materiali dell’epoca.
Osservando globalmente l’impaginazione del ciclo di affreschi, sembrerebbe di poter evincere l’influenza dell’impostazione tipica della miniatura, con ambientazioni accurate, con particolare attenzione per i soggetti vegetali e attenzione per i dettagli.
La valutazione esegetica immediata e razionale, quella che cerca di trovare un referente riconducibile culturalmente al periodo e al luogo in cui gli affreschi furono realizzati, ci spinge a cercare le fonti nell’Antico Testamento, in particolare nel I e II Libro di Samuele, con Re David protagonista delle varie scene ricostruite sulle pareti della cantina.
Va però osservato che da quando sono oggetto di studio, questi affreschi hanno suscitato qualche perplessità sull’effettiva identificazione dei soggetti rappresentati: infatti, nell’Ottocento, vi fu chi ipotizzò che Davide e altri personaggi presenti nelle pitture, di fatto fossero allegorie di personalità locali, forse riconoscibili tra membri dell’abbazia e coevi al pittore. Ma l’interpretazione è andata oltre: infatti, si sono anche levate voci tendenti a scorgere nella “Cantina dei Santi” un’allegoria dell’epopea di Re Artù…
Si tratta certamente di una lettura che determina qualche perplessità dal punto di vista filologico, poiché il soggetto indicato sembrerebbe effettivamente lontano dalla dimensione storica e culturale in cui maturò il progetto pittorico di cui ci stiamo occupando.
Ma come sarebbero giunti a questa identificazioni gli storici del passato che lanciarono la prospettiva, ancora oggi capace di suscitare l’interesse sia degli studiosi che dei turisti?
L’identificazione potrebbe essere stata determinata da un fatto in effetti piuttosto superficiale: l’apparenza dei soggetti del corpus pittorico, raffigurati come personaggi del medioevo. Ma si tratta di un’impostazione formale che non è affatto straordinaria, poiché spesso i pittori del passato hanno rappresentato personaggi del mondo antico con abiti coevi a quelli degli autori. Stessa cosa si può dire della scenografia. Quindi siamo al cospetto di un’interpretazione che non può essere presa in considerazione.
A latere vi è un’altra chiave di lettura, che si regge sul valore attribuito al linguaggio dei simboli e con il rischio di scivolare un po’ al di fuori delle coordinate richieste per una valutazione razionale.
Proviamo comunque a seguirla. Per farlo, iniziamo con una valutazione generale: i ventotto riquadri sono collocati su quattro registri da sette riquadri ciascuno. Due registri sono sulla volta e due sulle pareti (uno a destra e l’altro a sinistra). Il percorso di lettura presuppone la partenza dal primo riquadro del registro di destra della volta (sul lato opposto all’ingresso); poi lo sguardo corre fino al settimo riquadro; al fondo, si sposta sul registro di sinistra della volta, arriva al lato opposto e passa alla parete di destra (avendo alle spalle l’ingresso) e finisce con quella di sinistra. Di fatto compie un itinerario a spirale: simbolicamente una sorta di percorso contrassegnato da un andamento che impone all’osservatore una traiettoria costituita da un’impostazione simbolica.
Vi è poi una singolare caratteristica che ci spinge verso la dimensione fantastica: la presunte somiglianza tra il Re David di Romagnano e i ritratti di Re Artù (per quanto possano essere affidabili): le analogie sono piuttosto evidenti nelle illustrazioni del Christian Heroes Tapestry (1385) in cui il sovrano, che è una delle pietre miliari della mitologia anglosassone, presenta caratteristiche fisiognomiche riconoscibili nelle raffigurazioni della “Cantina dei Santi”.
Un caso?
Probabilmente si, anche se chi ama viaggiare con la fantasia è avvezzo ad allentare il freno della razionalità, dando così spazio anche a illazioni che nulla hanno a che vedere con la storia. Ma tant’è e così ci impattiamo nella singolare ipotesi secondo la quale il committente e l’esecutore del ciclo pittorico di Romagnano Sesia probabilmente intesero affidare al ciclo di affreschi il compito di proporre una funzione alternativa, più nascosta, esoterica verrebbe da dire. Con quel suo andamento
a spirale il corpus pittorico avrebbe un andamento processionale, un movimento collegato all’iter iniziatico.
Inoltre, negli affreschi è ricorrente il tema dello scontro: caratteristica che bene si inquadra nella figura del dux bellorum incarnata da Re Artù in molte rappresentazioni che lo vedevano protagonista.
Vi è poi il tema della spada. Come è ben noto quest’arma ha svolto un ruolo rilevante nella saga arturiana (tutti ricordiamo la nota Excalibur), divenuta un simbolo trainante nelle mitologia del ciclo cavalleresco anglosassone.
A Romagnano Sesia è raffigurato Re Davide senza spada, che si impossessa dell’arma di Golia, sguainandola dal fodero del gigante e con essa gli taglia la testa. La spada prelevata da Davide sarebbe l’Excalibur estratta dalla roccia: impossessarsene significava acquistare potere, diventare il dux bellorum…
Emblematicamente l’ultimo affresco è accompagnato da un cartiglio che chiarisce l’avvenuto passaggio da uno stadio a un altro: “Tu pascerai Israele mio popolo, tu sarai capo in Israele”.
Re Davide ha raggiunto il suo ruolo attraverso un itinerario iniziatico: lo stesso itinerario che ha dovuto percorrere Artù per diventare re.
E se fosse Re Artù?
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