In genere i periodi storici di passaggio fra due secoli sviluppano (nel bene e nel male) delle spinte verso il diverso, il nuovo, il mai tentato.
Il famoso verso di Manzoni sui “due secoli / l’un contro l’altro armato” non è valido solo per il XVIII e XIX secolo, ma anche per quel periodo che, con espressione azzeccata, venne definito “Belle Epoque”. Il titolo di “belle” se lo guadagnò a causa del gran numero di scoperte e progressi tecnologici che giunsero a migliorare la vita di ogni giorno, ma anche per lo stupore suscitato da un così lungo periodo di pace (dal 1871 al 1914), visto che in Europa, di norma, ruggivano sempre sanguinose guerre intestine.
In campo musicale la Belle Epoque previde e anticipò gran parte delle arditezze a venire; e più ancora che altrove fu in Francia, a Parigi, che fece maturare i suoi frutti. Fra la gente era nata una forte propensione per il leggero, il fatuo. L’operetta era al suo punto massimo di popolarità. Non più teatri aulici, ma dappertutto café-chantant, varietà, cabaret (poi diventati tabarin). Non più balletti sulle punte, ma il can-can, le Folies Bergères, il Moulin Rouge. Non più arie o romanze, ma chansons e chansonniers, e non più celebri pianisti, ma celebri ballerine, come la Otero o la Cavalieri o Mata Hari.
Davanti a questa inclinazione eclettica del gusto, ormai direzionato verso ciò che è più facile e meno ricercato, gran parte dei compositori della “vecchia guardia”, cioè dell’800, gettò la spugna. Usciti loro di scena, a livello alto sorsero le arditezze armoniche di Debussy e la raffinatezza melodica di Fauré, mentre a livello inferiore si muoveva il magma sonoro di centinaia di piccoli compositori o esecutori dediti semplicemente a soddisfare le richieste del pubblico e delle mode.
A metà strada fra questi due estremi si affacciò un nome aureolato di bizzarria e originalità, quello del compositore Eric Satie.
Nato nel 1866 a Honfleur in Normandia, ancor bambino seguì la famiglia a Parigi, dove fu instradato allo studio del pianoforte dalla matrigna e portato a frequentare anfiteatri e circhi da uno zio; finché un amico organista capì le sue non comuni doti musicali e lo fece regolarmente iscrivere al Conservatorio di Parigi (definito da Satie “una specie di galera”). Sua specifica caratteristica era quella di non sapersi adattare ad alcun tipo di insegnamento. Ospitava in sé degli estremi che lo facevano progressista e conservatore, facile ed enigmatico, colto e incolto. Continuò gli studi in modo sregolato e quando diede gli esami fu bocciato. Allora si guadagnò da vivere facendo il pianista in vari locali di Montmartre, sfornando via via composizioni insolite e strane, ma anche seducenti, che incuriosivano e tenevano in sospeso il pubblico. Ancora oggi è difficile definire i confini della sua musica, data l’ambiguità che la fa apparire seria e giocosa allo stesso tempo.
Furono comunque queste originalità ad aprirgli la strada verso le avanguardie parigine di inizio secolo, portandolo a camminare a braccetto con personaggi come Claude Debussy, Pablo Picasso, René Clair, Jean Cocteau. Dopo i tre pezzi per “Jack in the Box”, il suo maggiore momento di gloria lo toccò col balletto cubista “Parade”, una tappa fondamentale per la nascita del surrealismo in Francia. E tale era la sua autorevolezza nel mondo avanguardistico, da diventare una specie di nume tutelare per il famoso “Gruppo dei Sei”.
Di Satie si lodano in particolare le tre celebri “Gymnopedies” per pianoforte, titolo bizzarro che fa riferimento ad antiche danze spartane, dove nella lieve, pensierosa sequenza processionale è facile perdere il senso del tempo e dell’orientamento, e le sette “Gnossiennes” dove sperimenta nuove forme di suono inventando di fatto la tecnica del “pianoforte preparato”. Ma più che per aver composto il brano più lungo della storia (“Vexations”, trentacinque battute ripetute 840 volte per la durata di venti ore…) di lui mi piace ricordare le sue chansons di sicura presa, come l’adorabile e un tantino osé “Je te veux”.
La sua indole strampalata lo portava a vivere in un alloggino di due sole stanze, la seconda chiusa a chiave, dove teneva la sua preziosa collezione di ombrelli (andava pazzo per gli ombrelli, ne possedeva a centinaia, ma non li usava mai per “timore che si potessero bagnare”). Non poteva suonare il pianoforte senza ficcarsi in testa il suo cappello a cilindro, e guai se cercavi di toglierglielo; era fissato per tutti i dettagli di abbigliamento, specie per i completi di velluto, e ne possedeva tantissimi (tutti identici). Era insieme agnostico e religioso: fondò una Chiesa Autonoma “d’Arte e di Gesù”, di cui restò peraltro l’unico membro. Aveva ossessioni mistiche che riguardavano i numeri, specialmente il tre, forse per associazioni con l’Ordine cabalistico dei Rosacroce… Ciò non lo salvò dagli effetti dell’abuso di alcoolici, vale a dire dell’assenzio, la droga di quegli anni: morì per cirrosi epatica circa un secolo fa, nel luglio del 1925. Max Jacob disse di lui “è un mammifero la cui specie annovera un unico rappresentante: lui.”
La sola vera epigrafe che gli spetti.