Suor Angelica dal Trittico di Puccini al Teatro Regio- Foto di Daniele-Ratti
Quando tra i giovani, per i motivi più svariati, si interrompe un sentimento di stretta amicizia o di affettuosa complicità, è luogo comune affermare che il cuore soffre, che addirittura si può ammalare e soltanto il tempo lo può curare. Ma il tempo diventa molto meno efficace se i capricci del cuore appartengono a chi giovane è stato tanti anni fa e le attuali preoccupazioni per la salute concedono poco spazio al sentimento.
Eccomi allora, in una torrida domenica d’agosto nel momento del pranzo quando anche la fatica di fare niente diventa insopportabile, infilare le scale di un ospedale cittadino per consegnarmi con fiducia e speranza nelle mani del personale medico incaricato di rimettermi in condizione di poter fare ancora un po’ di strada sul lungo e a volte tormentato sentiero di cui fortunatamente ignoriamo la linea del traguardo.
Mi sia permesso per una volta di smentire, conclusa la mia recente esperienza, sapientoni e disfattisti assortiti, e ringraziare invece di aver ritrovato, e non per merito di questi ultimi, accettabili condizioni di salute con cui poter vivere o rivivere gli aspetti del quotidiano, compresi i momenti di gradevole ricordo tra cui la festa di Caselle che, nonostante il trascorrere degli anni e l’inevitabile adeguamento alle nuove proposte di partecipazione suggerite dall’associazionismo locale, amo ancora ricordare racchiusa nella intensità dei suoi indimenticabili tre giorni di settembre.
La piazza Boschiassi, il cui spazio lasciato libero per l’occasione dalla presenza giornaliera dei banchi del fruttivendolo e del pesce fresco, era conteso dalla giostra dei bambini, dal vecchio familiare tiro a segno e dal richiamo straordinario del “foto lampo” dove in molte circostanze, non esitando a ricorrere alla compiacenza del magnesio e alla presenza signorile della titolare dell’attrazione, imbracciato il fucile, tremolanti pacifisti si trasformavano in cecchini infallibili lasciandosi immortalare in piccole, scadenti istantanee da mostrare a giovani nipoti più increduli che affascinati. Ultimo ad arrivare, il ballo a palchetto rappresentava il simbolo della festa e ospitava tanto l’impegnativa esibizione di capaci ballerini quanto la volenterosa improvvisazione di chi osava tentare valzer e mazurche sulle note licenziate non senza occasionali stonature da luccicanti e maestosi strumenti a fiato.
Dall’altra parte della strada, all’interno dell’oratorio il banco di beneficenza mostrava una inconsueta vetrina dei più disparati oggetti rigorosamente numerati e collocati sui piani di una speciale gradinata in legno che ogni anno il gioviale e corpulento capomastro Troglia si incaricava di allestire. La fortuna, nascosta nei biglietti arrotolati contenuti nell’urna trasparente saldamente impugnata dalla madre del parroco, decretava l’esito della pesca la cui importanza era irrilevante rispetto alla finalità sociale che l’iniziativa si proponeva e a cui già dal mese di agosto gruppi di volontari, alcuni ancora provvisti degli evidenti segni di un lontano solleone, con giovanile entusiasmo si dedicavano.
La meraviglia dei fuochi d’artificio che sul Prato della Fiera procurava estasiati assembramenti di persone adulte e spalancava la bocca dei bambini, concludeva la festa di Caselle. Il ritorno a piedi verso la piazza offriva una ottima occasione a chi casualmente si era ritrovato, per raccontarsi e commentare le vicende del paese con particolare riferimento a chi il paese l’aveva per sempre abbandonato. È di nuovo settembre. Non so se a conclusione della festa di Caselle i fuochi d’artificio si impadroniranno ancora del nostro cielo.
A passo lento sto tornando verso la piazza e, camminando, un senso di profonda tristezza mi ricorda che alcune pagine di un vecchio romanzo d’amore, nato qui tanto tempo fa, nel clima insopportabile di una estate infuocata , da poco si erano chiuse. Conoscevo Franco Tempo dagli anni della scuola media. La terribile recente pandemia gli ha sottratto definitivamente ogni speranza dopo averci illusi ingannevolmente di avergli restituito la vita.
Anche Carlin, Carlo Succo, in questi giorni ha smesso per sempre di recitare. Mi rivedo giovane, e con affetto penso a lui nei panni del curato di campagna che, come nella realtà anche nella finzione, congedata prematuramente la propria chioma, bonariamente presiede all’immancabile trionfo dei sentimenti tra le complicate coppie di innamorati delle nostre colline.
Era il tempo felice di quella filodrammatica; un gruppo di amici che sapeva divertire e divertirsi offrendo sul palco degli oratori di Caselle uno spettacolo che comunemente definivamo “ il teatro”. In particolare durante la recita del pomeriggio il salone si popolava di ragazzi entusiasti e rumorosi, di parenti e amici degli attori e di vecchie beghine che, reduci dalle funzioni religiose in cui avevano appena smesso di assordare il cielo con improbabili salmi cantati in latino, prendevano posto al centro della platea zittendo continuamente i giovani e irrequieti spettatori, per lasciarsi andare infine, con un sussurro ad alta voce, a un gratificante: “ ‘A travaju propi bin “. Ciao Carlin, lassù il tuo teatro è pronto. Ti aspettano per cominciare.