Sono le tre di notte e il mio studio è illuminato solo dal bagliore tenue dello schermo del computer. Sullo sfondo, la voce di Thom Yorke si diffonde dalle casse, cantando “Everything in Its Right Place”. Mi sono fermato qui, nel mezzo di questa quiete notturna, per tentare di scrivere di nuovo dopo quasi un mese di vacanza. Non pensavo sarebbe stato così difficile. Il tempo sembra essersi dilatato in maniera innaturale, moltiplicato dalle giornate trascorse lontano dai palchi, lontano da quella vibrazione unica che si sente solo durante un live.
Rimettere mano alla fotocamera, dopo tanto tempo, può sembrare un’azione meccanica, quasi scontata. Ma la verità è che ogni volta c’è sempre un pizzico di timore, quella paura sottile di non essere più capace di catturare l’essenza di un concerto. Perché, in fondo, il nostro lavoro non è solo fatto di tecnica, ma di cuore, di empatia con ciò che sta accadendo sul palco. Ci sono momenti, come questo, in cui mi trovo a rivedere le mie stesse foto, non per perfezionarle, ma per rivivere quei momenti. Mi sembra quasi di sentire l’energia della folla, di respirare l’odore della sala, di percepire le vibrazioni delle note che attraversano l’aria.
È un po’ come guardare vecchie fotografie di amici lontani: c’è una dolce nostalgia, un senso di mancanza che però è anche confortante. Ogni tanto, lavoro su scatti che avevo messo da parte, lasciati lì, in attesa di una seconda opportunità. E mi accorgo che, nonostante tutto il tempo passato, la magia non se n’è mai andata. È semplicemente rimasta lì, in sospeso, pronta a esplodere di nuovo appena prendo in mano la fotocamera.
E infatti, quando lo faccio, tutto ritorna al suo posto. È come se non avessi mai smesso. Le due cose – l’attesa e l’azione – si amalgamano in modo naturale, come se fossero due facce della stessa medaglia. E in quel momento, capisco che la mia paura era infondata. La passione, la connessione con la musica, non svaniscono. Rimangono lì, pronte a riaccendersi non appena ci immergiamo di nuovo nell’atmosfera unica di un concerto.
Poco meno di due mesi fa, mi è capitato di fotografare uno di quei momenti che, da soli, valgono tutta una carriera. Sul palco c’era Tom Morello, un gigante della musica, uno che ha fatto della sua chitarra un’arma di ribellione e di passione. Ma quella sera, c’era qualcosa di diverso, qualcosa di speciale. Accanto a lui, con una chitarra in mano, c’era suo figlio, tredici anni e già una grinta da vendere.
La scena era quasi surreale. Vedere un ragazzo così giovane, accanto a un padre così imponente, condividere il palco non è cosa di tutti i giorni. Non è scontato che un figlio scelga di percorrere la stessa strada del padre, soprattutto quando quest’ultimo è una leggenda vivente. Ma quel che mi ha colpito di più non è stato solo vedere il giovane Morello tenere testa al padre a colpi di chitarra, ma la complicità che traspariva da ogni loro gesto, ogni loro sguardo.
Non sempre un grande artista riesce a trasmettere la propria passione e la propria bravura al figlio. A volte, per quanto ci si provi, la scintilla non scocca. Ma quella sera, su quel palco, ho visto qualcosa di raro: un passaggio di testimone naturale, non forzato, una condivisione di amore per la musica che andava oltre il semplice legame di sangue. In quel duetto, c’era tutta la potenza della musica come linguaggio universale, capace di unire generazioni e di creare momenti unici.
Mentre scattavo, mi sono reso conto che stavo immortalando non solo un’esibizione, ma una sorta di rito di passaggio, un momento che probabilmente rimarrà nella memoria di quel ragazzo per tutta la vita. E chissà, forse anche in quella del padre. È stata una di quelle notti che ti ricordano perché ami questo lavoro, perché nonostante le difficoltà, le attese, le paure, continui a farlo.
Ora, nel silenzio del mio studio, con le note di “Where Is My Mind?” dei Pixies che riecheggiano nella stanza, penso a quanto sia strano il nostro mestiere. Catturiamo momenti che non torneranno mai più, li fissiamo in immagini che diventeranno ricordi, non solo per noi, ma per chiunque le guarderà. E in quei momenti, non c’è spazio per le incertezze, per i dubbi. C’è solo la musica, il palco e la fotocamera.
E così, alle tre del mattino, con la testa piena di ricordi e il cuore che batte al ritmo della musica, capisco che non importa quanto tempo passi lontano dai concerti, la passione non svanisce. Rimane lì, latente, pronta a esplodere di nuovo alla prima nota, al primo click.
In conclusione, voglio salutare tutti voi, lettori di “Fatti di Musica”, con un ultimo consiglio musicale: mettete su “Heroes” di David Bowie. Perché, in fondo, ognuno di noi è un eroe, almeno per un giorno, ogni volta che riusciamo a catturare l’essenza della musica in una fotografia.
A presto,
William Bruto