Ci sono soggetti letterari che sembrano fatti apposta per essere messi in musica e accendere la creatività dei compositori. Uno di questi è sicuramente la “Storia del Cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut”, romanzo dell’abate Prévost, un best seller della metà del Settecento. La sua trama, che fu criticata per immoralità, contiene una tale miriade di casi e di avventure da poter servire non per uno ma per una decina di libretti. Sono stati molti i musicisti che se ne sono occupati, ma principalmente tre, stipati nella seconda metà dell’800, hanno lasciato dei lavori non effimeri: Daniel Auber nel 1856, Jules Massenet nel 1884, Giacomo Puccini nel 1893.
Nessuna di queste Manon è del tutto fedele alla fonte letteraria così come nessuna la tradisce del tutto. Nelle tre partiture il soggetto viene indagato e sviscerato in modi sempre diversi, una “peccatrice senza malizia” dalle cento sfaccettature. A esempio la Manon di Auber, su libretto di Eugène Scribe, è una creatura bella e sfortunata che a causa della sua frivolezza cerca un bene che non trova, ma che in sostanza resta fedele al suo Des Grieux ed è quasi incapace di slealtà (travisando non poco la vera Manon di Prévost). In un ruolo di soprano di coloratura, essa ride e sfarfalleggia amabile mentre la musica che con eleganza e discrezione sottolinea il suo ritratto, all’inizio apprezzata, finì poi per essere dimenticata, come accadde a quasi tutti i lavori di Auber. Forse per correggere quella visione erronea dell’eroina, Massenet, con l’aiuto dei librettisti Henri Meilhac e Philippe Gille, volle plasmare una creatura intrinsecamente femminile, che ama Des Grieux pur desiderando ciò che Des Grieux non potrà mai darle, cioè ricchezze a profusione, per ottenere le quali lo trascina sulla via della frode, delle mascalzonate, del gioco d’azzardo. In Massenet fa capolino un dettaglio non secondario, la vocazione di Des Grieux che, deluso da lei, intende farsi prete, salvo poi tornare nelle sue braccia alla prima occasione. Una Manon e un Des Grieux deboli e amorali, quindi più vicini a Prévost. La musica massenetiana sostiene questo percorso con modi raffinati intrisi di settecento ma anche capaci di suscitare momenti teneri indimenticabili. Considerata da subito un capolavoro, l’opera ebbe dovunque accoglienza trionfale, tanto da fare rapidamente il giro del mondo; per cui pare inconcepibile che un giovane pressoché ignoto, a cui non arrideva un’oncia di successo, desiderasse entrare in competizione con Massenet e metterlo in ombra!
Ma fu così che Giacomo Puccini – testardamente – nel 1889 avvicinò il soggetto e se ne lasciò ammaliare. Pur senza disporre di un libretto decente, anzi avendo un testo confusionario stilato a quattro, sei, otto mani (dopo l’iniziale Marco Praga si avvicendarono Domenico Oliva, Ruggero Leoncavallo, lo stesso Giulio Ricordi, e infine i due paladini Luigi Illica e Giuseppe Giacosa intervenuti a raddrizzare), pur così, si gettò a capofitto nella composizione. Ora se pensiamo al nitore ed alla bellezza dei futuri libretti pucciniani, questo è un vero guazzabuglio. Però un guazzabuglio efficiente. Perché a sostenere l’intera struttura qui c’è il solo dettaglio non presente nelle altre due opere: la passione. Come lo stesso Puccini osò affermare: “Massenet l’ha sentita da francese, con la cipria e i minuetti, io la sento da italiano, con passione disperata.” Per giungere a ciò fu necessario tradire ulteriormente il testo di Prévost riducendo l’intera opera ad un solo episodio della vita avventurosissima di Manon, quello che nel romanzo causa la sua condanna alla deportazione in Luisiana come prostituta.
All’età di trentaquattro anni (un’età non certo da debuttante) dopo i flop delle “Villi” e di “Edgar”, Giacomo Puccini colse il suo primo vero grandioso e stabile successo, e lo colse sulle tavole del palcoscenico del Teatro Regio di Torino (8 febbraio 1893). Fu l’inizio di una carriera artisticamente ed economicamente strepitosa.
Ora quello stesso Teatro Regio nel centenario della sua morte ha pensato di ripresentare la sua “Manon Lescaut” insieme alle altre due Manon, in un inedito terzetto, così da suscitare raffronti, accostamenti e paragoni. Una bella pensata: anche se a mio parere avrei preferito un’esecuzione delle tre Manon in ordine cronologico, con l’inevitabile attesa verso “l’ultima delle tre”, cioè verso il parto pucciniano che dei tre è anche il più “recente”. Invece la cronologia sarà fatta al contrario, iniziando da Puccini e finendo con Auber, un capovolgimento che spara da subito le cartucce migliori. Ma la curiosità che mi spinge ad ascoltare un’opera sparita e forse mai eseguita qui da noi sarà comunque molto accesa. A un gradino superiore ci sarà l’ascolto delle languorose dolcissime melodie di Massenet. E al gradino più alto la forza prorompente di Puccini: intendo quell’intero ultimo atto con sulla scena due soli protagonisti, due che si amano sull’orlo di un baratro oltre cui c’è la morte. Se questa non fu una grande novità del teatro lirico, allora non so più cosa sia una novità.
Un bel terzetto di Manon
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