L’itinerario visivo costruito di questa la 60° Biennale di Venezia ci propone una panoramica tra artisti che si muovono liberamente nell’oceano-mare dei generi, una parte dei quali non direttamente ascrivibile all’arte tradizionale, anche in relazione alla provenienza stessa dei vari artisti, alcuni outsider o ai margini del sistema.
Infatti, numerosi ospiti di questa edizione sono membri di società indigene, nativi che a seguito di varie vicissitudini – in genere legate agli effetti del colonialismo – si sentono stranieri in patria. Si pone su questa linea l’immenso murales realizzato, dal gruppo brasiliano Mahku sulla facciata del padiglione centrale dei Giardini.
Il curatore è il brasiliano Andriano Pedrosa, che ha voluto dare alla rassegna un titolo di immediata comprensione: “Foreigners Everywhere / Stranieri ovunque”. In effetti, come avverte il Pedrosa, oggi il contesto in cui si colloca l’opera è un mondo brulicante di crisi multiformi che riguardano il movimento e l’esistenza delle persone all’interno di Paesi, nazioni, territori e confini. Si tratta di crisi nelle quali il curatore avverte il riflesso di “pericoli e insidie legate a questioni di lingua, traduzione e nazionalità, che a loro volta mettono in luce differenze e disparità condizionate da identità, cittadinanza, razza, genere, sessualità, libertà e ricchezza”. Facilmente quindi in questo panorama, l’espressione “Stranieri Ovunque” assume più di un significato. Innanzitutto, significa che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo ovunque. In secondo luogo, significa che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo e di fatto si è sempre stranieri.
In effetti è proprio il continuo incontro ma anche scontro di differenze, il leitmotiv sul quale si struttura il gigantesco complesso della rassegna veneziana. Un polimorfo universo consacrato all’arte, con i suoi 88 padiglioni nazionali e la mostra allestita sotto il titolo di cui sopra, che si estende tra i Giardini e l’Arsenale. A tutto ciò si aggiungono le mostre in varie località esterne e gli eventi collaterali.
I Paesi presenti per la prima volta alla Biennale sono: Benin, Etiopia, Timor Leste e Tanzania. Mentre Nicaragua, Repubblica di Panama e Senegal partecipano per la prima volta con padiglione proprio. Quello della Santa Sede è stato allestito alla Giudecca negli spazi della Casa di reclusione femminile.
In linea con le scelte del curatore, nel corpus di opere proposte il visitatore scorge riferimenti che si legano all’artigianato e alla dimensione tradizionale che, in modo un po’ rozzo, potremmo definire “arte popolare”. Ma si tratta di una scelta ben precisa, poiché vi è monte la volontà di ripristinare il rapporto con le radici degli artisti, che solo in parte ne sublimano l’essenza formale e contenutistica originale, mantenendo infatti intatto il cordone ombelicale che li lega alla loro cultura.
La quantità di opere e di artisti rende complicata la scelta, ogni riferimento può essere inteso come l’oggettivazione dei gusti e anche dell’ideologia del cronista che stende le note d’arte. Ciò è vero in parte, anche se è innegabile che ogni parola scritta in qualche modo diventa una dichiarazione di sé, poiché, in un modo o nell’altro, finisce per effettuare delle scelte, delle esclusioni e delle celebrazioni.
Nel caso della 60° Biennale veneziana, ci sorge spontanea una domanda: in questo nostro tempo dominato dalla globalizzazione, possiamo sentirci autorizzati ad affermare che vi siano culture “originali”, del tutto scevre dai condizionamenti delle culture dominanti? E l’assenza di questi condizionamenti in che modo si afferma nelle categorie dell’estetica? Sono domande difficili anche per il più acrobatici approcci epistemologici: possiamo prendere atto che il ricorso all’archeologica e all’etnografia si sono rivelati due mezzi con grandi potenzialità per una gran parte degli artisti presenti. Quindi il riverbero della memoria diventa struttura portante per rivendicare identità – in questo caso etniche e culturali – ma anche per altre forme di identificazione del sé, che oggi hanno nell’arte un mezzo per non essere sottotraccia, ma acquisire una propria valenza estetica, certo, ma soprattutto sociale.
Sono emblematiche in tal senso le opere di André Taniki, sciamano della regione dell’alto Rio Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana, che ha trasformato il vasto corpus segnico caratteristico dell’esperienza sciamanica, in un linguaggio virante in una direzione che risulta maggiormente attenta all’estetica, pur lasciando riverberare la matrice simbolica della narrazione visiva tradizionale.
Jeffrey Gibson, di origini cherokee, ha ripristinato le ataviche esperienze rituali del suo popolo amalgamandole a materiali e linguaggi propri dell’arte contemporanea, che creano simbiosi tra etnomusicologia e l’utilizzo di materiali tipici della tecnologia di questo nostro tempo.
Complessa e di grande effetto, non solo estetico, la mostra allestita nel padiglione olandese con le sculture del gruppo CATPC, della Repubblica democratica del Congo, che opera con mezzi culturali per il recupero delle terre in passato adibite a piantagioni e sotto il controllo delle potenze coloniali. L’intento è ritrovare la sacralità di spazi in cui la violenza, lo sfruttamento e non ultima la malvagità hanno lasciato ricordi indelebili e ferite difficili da sanare. Le sculture, realizzate da Renzo Martens, si rifanno all’arte tradizionale africana, con quei necessari aggiustamenti che consentono una più nitida messa a fuoco degli eventi evocati.
Sconfiniamo nel mondo Inuit con i lavori di Inuuteq Storch, che indaga il complesso rapporto tra luce e ambiente, avendo come territorio di indagine la sua terra natale, la Groenlandia. L’allestimento realizzato a Venezia integra immagini dell’artista e quelle di John Møller (1867-1935), primo fotografo professionista nativo. Il risultato è una simbiosi narrativa che focalizza la relazione tra i riverberi coloniali danese e la società post-coloniale. Interessante il recupero della concezione atavica autoctona, secondo la quale la fotografia aveva in sé qualcosa di magico, tanto da indurre i soggetti a ritrarsi davanti alla fotocamera.
Anche questo innesco di impostazione etnografica calato nella piattaforma dell’arte, consolida il focus della 60° Biennale, mettendo appunto in risalto l’alterità intesa soprattutto come occasione di conoscenza e di mantenimento delle tradizioni.
Ancora una volta, il percorso oltre lo specchio di Alice che la rassegna veneziana sa produrre, continua a fornire un vastissimo catalogo di occasioni buone da pensare: le scelte si possono condividere o discutere, ma resta comunque il fatto che ogni due anni Venezia, per quanto riguarda le arti visive, diventa un laboratorio di idee straordinario.