L’anno 2024 tutto dedicato a Giacomo Puccini sta finendo ed è giunto il triste momento di commemorare il giorno di novembre che cent’anni fa ce l’ha portato via.
A tutto il mondo musicale era noto che Puccini, dopo un’estenuante ricerca, aveva fissato la sua attenzione su un testo tratto da una favola di Carlo Gozzi, Turandot, e che la composizione era giunta in dirittura d’arrivo. A metà del 1924 lo stesso compositore aveva stabilito che la “première” sarebbe avvenuta alla Scala il 25 aprile 1925: data fissata e improrogabile. Aveva fatto questa mossa per indurre se stesso, sotto la spinta della pendente spada di Damocle, a schiodare l’opera bloccata a metà del terzo atto e a trovare la forza, l’idea luminosa, il colpo di genio che l’avrebbe conclusa. “Butto giù temi, sogno cortei, sussurro cori nascosti, combino armonie dell’altro mondo”, aveva scritto estasiato nei momenti caldi dell’ispirazione. Ma adesso i mesi passavano e il benedetto finale non veniva fuori.
In questa situazione di stallo si infilò la mano del destino.
Sul finire del ’23 il compositore accusò strani fastidi alla gola, curati con le acque di Salsomaggiore e con la semplice astensione (ahi per lui!) dal fumo. Ma in primavera il disturbo si accrebbe e dovette sottoporsi ad altri controlli. A Firenze il Dottor. Torrigiani diagnosticò un papilloma sotto l’epiglottide, sperandolo di natura benigna. Ma la difficoltà a deglutire e gli sbocchi di sangue erano continui, per cui, dopo un consulto coi professori Gradenigo e Bianchini e un prelievo in loco, risultò che si trattava di un tumore maligno inoperabile. Ipocondriaco di natura, Puccini aveva ribrezzo per le malattie, la vecchiaia, la morte; tentò di illudersi, ma la gravità del male era lampante. Toccò al figlio Tonio convincerlo della necessità di sottoporsi al più presto a una nuova e rischiosa terapia coi raggi X che veniva effettuata in due soli posti, a Berlino e a Bruxelles. Fu scelta la clinica di Bruxelles del Dr. Ledoux.
Dopo di aver cercato di tranquillizzare la moglie Elvira, che non poteva seguirlo perché affetta da forte bronchite, il 4 novembre Puccini partì in treno per il Belgio. Era accompagnato da Tonio, dal cognato Franceschini, più tardi sarebbero giunti anche la figlia di Elvira, Fosca, alcuni amici e uno dei librettisti di Turandot, Adami. Alla stazione sorrise serenamente agli amici che lo salutavano dalla banchina.
Del resto prima dell’intervento poté ancora vivere alcuni giorni normali, basti dire che nel pomeriggio della domenica 23 andò al cinema a vedere un film americano. L’indomani a mezzogiorno ci fu l’operazione, complicata dal fatto che soffriva di diabete e non gli si poteva fare l’anestesia totale. Tramite una tracheotomia di ampio taglio gli furono applicati direttamente nel tumore sette aghi di platino irradiato. L’operazione durò tre ore e mezzo, come notò stupito lo stesso Puccini scendendo con le sue gambe dal lettino operatorio.
Se Puccini temeva la morte, adesso capì che la cura poteva anche essere peggiore della morte. Non riusciva più a parlare, solo a comunicare per iscritto su alcuni foglietti (oggi oggetto di culto). Nelle ultime lettere scrisse frasi dolorosissime come: “Ho un collare che è una specie di tortura… spilli di cristallo nel collo e un buco per respirare… questo buco mi fa orrore.. spurgo sangue vivo e nero a boccate…” I foglietti sono anche più sofferti: “Je respire par la gorge… mi pare di avere delle baionette in gola… Elvira, povera donna…” Tuttavia per alcuni giorni ci fu un leggero ottimismo: poté lasciare il letto, muovere qualche passo, leggere i giornali. Ma nel pomeriggio di venerdì 28 subentrò un collasso respiratorio e dovettero togliergli gli aghi. Durante la notte scrisse ancora alcuni foglietti: “Sto peggio di ieri… l’inferno in gola… mi sento svenire… acqua fresca”, un’agonia che durò fin verso le undici e trenta del mattino del 29 novembre, quando, ben cosciente, nel momento ultimo fece agli astanti il tragico gesto di salutare.
Fu così che la principessa Turandot non ebbe il suo finale.
A Bruxelles Puccini aveva portato con sé il testo dell’ultimo duetto con a margine alcune annotazioni, dei fogli staccati con appunti e trentasei pagine di partitura con lo schema completo dell’ultima scena (materiale su cui poi lavorò Franco Alfano, incaricato di terminare la partitura). Circa il problematico finale aveva scritto ad Adami: “I due esseri quasi fuori dal modo entrano fra gli umani per l’amore, e questo amore alla fine deve invadere tutti sulla scena in una perorazione orchestrale”. Parole che ben delineano la morale di una fiaba che si basa sul trionfo dell’amore. Franco Alfano ammise che quella perorazione orchestrale era necessaria ed inevitabile, e per farla scelse il tema di “Nessun dorma” esaltandone l’arco melodico grandioso. Non mi pare un finale inferiore a quello che lo stesso Puccini, utilizzando i propri temi conduttori, avrebbe prescelto. Alfano si attenne il più possibile a quanto pensato dall’Autore e questo è il motivo per cui ritengo bello, rispettoso e giusto eseguire il suo finale, senza cui l’opera mi parrebbe incompiuta due volte.