Gli Etruschi, o i Rasenna o i Rasna, come si facevano chiamare nella loro lingua, sono stati un popolo radicato dal X secolo a.C. in Toscana, Umbria e Lazio e con le loro dodici città-stato guidate dai lucumoni si spinsero fino nel cuore dell’area padana. A nord furono respinti dalla migrazione dei Celti, a sud vennero sconfitti e assorbiti da Roma. Le radici degli Etruschi affondano in un passato incerto e controverso. Sin dall’antichità, gli storici si sono divisi nel sostenere ipotesi contrastanti: Dionigi di Alicarnasso sosteneva che gli Etruschi fossero autoctoni dell’area fra Arno e Tevere; Erodoto li faceva provenire dall’Asia Minore, spinti in Italia da una carestia; Livio pensava che venissero dalle Alpi abitate dai Reti. La civiltà etrusca, così come la conosciamo noi, non si manifestò subito in modo unitario ma si trattò del risultato di interazioni tra genti diverse. Recenti indagini hanno fatto affiorare sorprendenti similitudini tra le necropoli etrusche e quelle di genti turche, facendo avvalorare l’ipotesi più antica, quella di Erodoto.
Questa popolazione era fortemente influenzata dalla religione, come d’altra parte tutte le civiltà dell’antichità. La vita degli Etruschi veniva scandita da cerimonie religiose e già il luogo della fondazione di una città veniva scelto meticolosamente dai sacerdoti che delimitavano con un bastone ricurvo, il lituo, il templum, ovvero la porzione di spazio considerata sacra. Gli assi, il cardo (che correva da nord a sud) e il decumano (da est a ovest), suddividevano la volta celeste in quattro quadranti ulteriormente ripartiti, ciascuno sede di una divinità diversa: ogni fenomeno che vi si manifestava era significativo per il destino stesso della città. All’incrocio degli assi si scavava una fossa, il mundus, per collegare il mondo dei vivi a quello dei morti: poi, con un aratro dal vomere di bronzo attaccato a un bue e a una vacca, entrambi bianchi, si scavava il solco del perimetro delle mura, interrotto in corrispondenza delle porte. Questo scavo veniva tracciato in senso antiorario per garantire prosperità, era inviolabile e chi lo attraversava era punito con la morte. Lungo la cinta muraria si lasciava il pomerium, una fascia di terreno incolta dedicata alla divinità. Chiudeva la cerimonia un rito sacrificale.
Il tempio consacrato alla divinità protettrice era costruito nel settore nord, con la facciata rivolta a meridione. Nessun tempio è giunto integro fino ai nostri tempi in quanto i materiali usati per la costruzione erano deperibili: i muri e le colonne di tufo rivestiti di terrecotte colorate, il tetto di legno sormontato da tegole. L’aspetto ci è noto grazie all’opera dell’architetto romano Vitrurio e agli scavi archeologici. I templi erano a pianta quadrata, preceduti da un colonnato e divisi in tre settori. Il tetto e le travi erano abbelliti da statue e da figure di animali, gorgoni e satiri. Al tempio, eretto su un basamento sollevato rispetto all’abitato, si accedeva tramite una scalinata. Le divinità erano praticamente le stesse dei Greci e dei Romani. Se in epoca arcaica gli Etruschi veneravano gli elementi naturali, l’influsso culturale ellenico li influenzò talmente a fondo da produrre un olimpo di divinità antropomorfe. La principale era Tinia (Giove), che governava il cielo con la sua sposa Uni (Giunone) e la loro figlia Menrva (Minerva). L’oltretomba era dominato da Charun (Caronte), il traghettatore di anime, e da Tuchulcha, demone della morte simile a un avvoltoio con la testa coperta di serpenti.
La vita era scandita da precise regole, l’etrusca disciplina (tesns Rasnas), codificata in libri noti a noi solo grazie alle citazioni degli scrittori latini. Saper interpretare i fenomeni celesti significava per gli Etruschi possedere la chiave della comprensione della realtà e della conoscenza del proprio destino. Ritenevano che il simbolo vitale per eccellenza fosse il fegato, sede degli affetti, del coraggio e dell’intelligenza e riflesso dello spazio sacro celeste. A interpretarlo erano gli aruspici, che lo estraevano ancora palpitante dalla vittima sacrificale, in genere una pecora. I fulmini venivano guardati dai fulgurales, i quali credevano che le folgori fossero scagliate dagli dei come manifestazione della loro volontà. Venivano classificati in undici tipi a seconda del colore, della violenza, del settore del cielo da cui provenivano e dal numero. Potevano essere interpretati come semplici avvertimenti, segni benaugurali, indicatori di pericolo oppure forieri di distruzione. Infine vi erano gli àuguri, che si occupavano di osservare e di interpretare il volo degli uccelli.
Una parte non indifferente dei riti riguardava la sfera funebre e comprendeva lamentazioni, banchetti e sacrifici accompagnati da musiche e danze. Il culto dei morti di solito era praticato in casa. Il modo in cui i morti erano onorati varia con la società etrusca. Se infatti nelle epoche più antiche non si evidenziavano differenze sociali tra i ceti, il contatto con il mondo greco portò alla nascita di aristocrazie che posero nelle tombe dei ricchi corredi di vasi, gioielli e ornamenti vari. Le ceneri del defunto, cremato, erano raccolte in un vaso a forma di doppio cono, coperto da una ciotola o da un elmo. Vaso e corredo (per gli uomini un rasoio, per le donne un fuseruola da tessitura) erano poi deposti in un pozzetto scavato nel terreno o in un’urna a forma di capanna, rappresentazione della casa del morto.
Le pitture tombali ci hanno fornito dettagli sugli usi e sui costumi degli Etruschi. Per esempio sull’abbigliamento, basato su abiti di lana e di lino e con una vera e propria predilezione per i mantelli. Accanto alla tebenna, portata di traverso lasciando scoperta una spalla oppure a mo’ di scialle, le donne indossavano un mantello che velava il capo. L’intensificarsi dei contatti con gli altri popoli del Mediterraneo portò la moda del chitone, una pratica veste a pieghe lunga fino alle ginocchia o ai piedi.
L’abitazione etrusca in origine non era grande: poche stanze, una di seguito all’altra. Con il tempo, però, le più ricche assunsero un aspetto sfarzoso, con ampi ambienti decorati e preceduti da portici, atri e vestiboli per accogliere gli ospiti. Le donne partecipavano ai banchetti insieme ai loro uomini, godevano di diritti precisi, possedevano beni propri e trasmettevano il nome ai figli. Sapevano leggere e scrivere e svolgevano anche professioni maschili, quali bottegaie, sacerdotesse e giudici. A volte partecipavano in prima persona anche ai giochi, passatempo preferito degli Etruschi nel tempo libero. Oltre a spettacoli, corse di cavalli e incontri di pugilato, c’erano gare sportive, danze e altre attività ludiche. Non mancava mai la musica , persino durante le battute di caccia, un esperto flautista suonava melodie armoniose.
Le abitudini gastronomiche degli Etruschi contemplavano la selvaggina, i cereali, i legumi, la carne di maiale e quella di pecora e i formaggi. La bevanda più amata era il vino, la cui coltivazione della vite, introdotta dai Greci, fu perfezionata e divenne, insieme all’ulivo, uno dei cardini della loro economia.
Roma assorbì la civiltà etrusca e fu il veicolo attraverso il quale ne garantì la conoscenza ai posteri. Fondata con rito etrusco, l’Urbe adottò insieme a tre re anche l’amore per il lusso e i banchetti, i gusti raffinati, varie usanze religiose, parte dell’architettura e il culto della Triade Capitolina. Dalla Città Eterna alcuni simboli e oggetti rituali, come il cappello e il lituo degli àuguri, trasformati in mitra e pastorale, sarebbero poi passati al Cristianesimo.