In quasi tutti i mercati di piazza o di rione cittadino una parte dello spazio è riservato ai banchi, solitamente di frutta e verdura, presidiati da contadini titolari, qualche volta soltanto a loro dire, di vicine aziende agricole.
Su uno di questi banchi, una mattina di fine ottobre scorso, quando ormai la nuova luna piena aveva decretato per l’anno corrente il tramonto quasi certo dei pregiati porcini, una meno nobile cassetta di funghi chiodini, quasi a rappresentare la continuità con i parenti più ricchi, sembrava offrirsi all’ignaro avventore.
Per soddisfare curiosità e sorpresa ho chiesto il loro prezzo e poi con un gesto di meraviglia ho ringraziato e mi sono allontanato. Continuando il cammino, colto dalla improvvisa, simultanea apparizione di una nuvola di capelli biondi e la corte numerosa di famigliari consenzienti, ho pensato al trionfalismo che in questo periodo agita e inorgoglisce chi ci sta governando, capace in soli due anni di dare un lavoro stabile a tutti, di sistemare l’annoso disastro dei conti pubblici e soprattutto di consentire a molti pensionati, che non dovranno più privarsi di nulla, di arrivare comodamente alla metà del mese. Quel signore con il banco sistemato nello spazio riservato ai contadini vendeva infatti i suoi funghi, ormai grossi e ancora meno pregiati, a 15 euro il chilo e forse non sapeva che noi già tanti anni fa le famiole, come abbiamo sempre amato chiamare i chiodini, le raccoglievamo direttamente dal vivo.
Pur essendo più facilmente rintracciabili nelle zone collinari e in montagna, anche in pianura a gruppi di decine di esemplari crescevano e crescono sui ceppi, sui tronchi di grossi alberi e lungo le rive dei fossi che, ragazzini a Caselle, avevamo imparato a riconoscere camminando dallo stretto e pericoloso sentiero della vecchia strada Goretta fino al tratto di strada sterrata che, allontanandosi dalla provinciale, portava alla frazione Grangiotti. Il bottino, gelosamente custodito fino a casa in vecchie borse della spesa, diventava nei giorni successivi ottimo compagno di zuppe e risotti oppure delizioso contorno saltato in padella con prezzemolo e uno spicchio di aglio.
E proprio quell’antico profumo, riaffacciandosi ai nostri giorni segnati dai pomeriggi brevi e un poco tristi dell’autunno inoltrato, ha riportato alla mente nelle settimane scorse la nostalgia di una faticosa e familiare polenta condita con famiole dalla fragranza unica, leggermente terrosa e intensa capace, oggi come allora, di avvicinare pensieri, sentimenti e riflessioni, anch’essi più intensi, all’annuale appuntamento con qualcuno che ci era appartenuto, che aveva camminato una vita intera al nostro fianco, portato altrove per sempre dagli anni o dal destino.
Nella giornata del 1° novembre, percorso a piedi il triste viale alberato che ricorda l’inutile, tragico orrore della guerra e muniti di buone intenzioni, oltreché di tanti lumini e di variegati mazzi di fiori più o meno costosi e ingombranti, nell’immenso cimitero di Caselle ognuno ha incontrato i propri cari già in trepidante attesa, quasi fossero ancora e sempre preoccupati per i pericoli del nostro mondo. Collocati i fiori nel vasetto fissato al marmo del loculo o sulla tomba posta a terra, riordinata nei giorni precedenti quando anche il panno umido del vecchio Sidol si era incaricato di lucidare le lettere che rivelano le generalità dell’inquilino e l’elenco delle sue trascorse virtù terrene, dopo un silenzioso e fitto colloquio, sono risuonate, dirette a noi, le abituali ultime raccomandazioni prima del congedo, con la promessa che ci saremmo rivisti nei giorni successivi. E non soltanto per rabboccare l’acqua dei crisantemi. Intanto, mentre le prime incerte ombre della sera avanzando sembravano avvolgere questo luogo sacro ai nostri ricordi e ai nostri affetti in un devoto, riconoscente trionfo di luci e di colori, camminando verso l’uscita mi era sovvenuta, tra ansia e curiosità, la figura di un amico che da poco ci aveva lasciati. Con lui avevo vissuto la Caselle del Prato della Fiera e del pallone. Renzo Candellone possedeva doti tecniche non comuni che avevano anche illuso i suoi anni giovanili prima che sfortuna e carattere lo confinassero per sempre nell’anonimato calcistico locale. Poi, un altro sussurro. Con lei, di cui in quegli stessi momenti ho avvertito soltanto lontanamente la voce, avevo vissuto invece, insieme ad altri amici di quel tempo, la stagione emozionante delle prime ingenue amicizie e poi quella delle successive più mature riflessioni, correndo a piedi dai nostri vicoli fino alla piazza di Caselle dove per anni asilo e oratorio ci hanno atteso per aiutarci nell’arte del crescere. Ciao Isa .
Fuori dal cimitero, immancabili e fumanti aspettavano le caldarroste. Sui cartocci caldi qualcuno calava un pizzico di sale per dare più sapore alle castagne. Alle mie castagne, che nel ritorno a casa, strette tra le mani, scaldavano ancora ricordi e sentimenti, quel giorno per dare più sapore è bastato il sale di una lacrima.
Il profumo delle famiole
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