Il concetto di festival musicale è quasi automaticamente associato alla stagione estiva, quando si possono fare spettacoli all’aperto in arene molto capienti e in località di forte richiamo turistico: si veda il grande anfiteatro romano di Verona, o la Versilia di Torre del Lago con il suo festival pucciniano. I festival, però, non sono un’esclusiva dell’estate, né si svolgono necessariamente in grandi spazi aperti. Alcuni di essi, infatti, non hanno tanto la vocazione di attirare le folle distratte di passaggio, quanto quella di radunare gli appassionati di un determinato autore o periodo, che hanno l’occasione per una full immersion nella musica da loro più amata. Una delle rassegne più seguite (almeno con il pensiero) dagli intenditori d’opera si svolge a Wexford, cittadina del sud-est irlandese, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, in giornate spesso piovose, e per lungo tempo è stata ospitata in una sede modesta (solo nel 2008 è stata costruita la National Opera House, un teatro d’opera moderno degno di questo nome). Si può considerare capostipite dei festival dedicati alle rarità operistiche, e mi piacerebbe andarci tutti gli anni, anche se la scomodità logistica ha fatto sì che sinora ci sia stato solo tre volte.
Anche nel nord Italia l’autunno è stagione di festival d’opera, e dei festival dedicati a due dei maggiori operisti italiani. A Parma, tra la fine di settembre e la metà di ottobre, si svolge la rassegna dedicata a Giuseppe Verdi, che ha la sua sede principale nel Teatro Regio della capitale ducale, e manifestazioni collaterali, ma non meno importanti, in altre sedi della città (come il Teatro Farnese, gioiello barocco sito nel complesso della Pilotta) e in cittadine della provincia, come Fidenza con il suo Teatro Magnani, e Busseto, dove si trova un teatrino-bomboniera intitolato a Verdi stesso. Dopo alcuni anni di assenza, sono tornato al Festival Verdi nel suo weekend conclusivo, attirato dalle due rarità operistiche in programma: “Macbeth” nella versione francese del 1865, e “La battaglia di Legnano”. Rappresentare “Macbeth” in francese è una tipica operazione da festival, che solo in tale contesto può trovare la sua giustificazione, e che al contempo spiega il senso di un festival tematico dedicato a uno degli operisti più eseguiti in tutto il mondo. Verdi, nel 1865, fu chiamato a preparare una nuova versione di “Macbeth” per l’Opéra di Parigi: riprese in mano la sua partitura italiana del 1847 e la rielaborò su un libretto italiano parzialmente nuovo, poi fece approntare una versione ritmica francese per le rappresentazioni parigine. Al giorno d’oggi, quindi, dal punto di vista artistico, non avrebbe senso, e tantomeno in Italia, ascoltare questa versione tradotta; ma nell’ambito di un festival specialistico è giustificata, una tantum, una simile operazione di ricostruzione storica. Le altre ragioni d’essere di un festival dedicato a Verdi sono la riproposizione di titoli poco frequentati del suo catalogo, come “La battaglia di Legnano”, e la realizzazione di edizioni di riferimento sia dal punto di vista filologico, sia dal punto di vista interpretativo. Devo dire che le produzioni ascoltate non hanno deluso sotto nessun fronte. Oltre ai due titoli d’opera, ho ascoltato la Messa da Requiem e un concerto assai curioso, innanzitutto perché non contemplava pagine verdiane: il festival infatti si è aperto ad alcune “ramificazioni”, che si collegano per affinità tematica alle opere messe in scena, che vertono sui rapporti tra amore, politica e potere. Così, al Teatro Farnese è stato allestito in forma scenica “Il combattimento di Tancredi e Clorinda” di Claudio Monteverdi, preceduto dalla “Lontananza nostalgica utopica futura” di Luigi Nono, facendo dialogare il Seicento e il Novecento tra di loro e con l’Ottocento di Verdi.
A novembre ci si sposta a Bergamo per il festival Donizetti Opera, al quale sono fedele da molti anni. Per tre weekend, a partire da metà mese, saranno allestite tre opere di Gaetano Donizetti, tra il teatro a lui intitolato e il Teatro Sociale di Città Alta. Quest’anno i tre titoli sono per varie ragioni rappresentativi dell’intera parabola creativa e della fortuna del compositore: un titolo giovanile, quasi mai ascoltato in epoca moderna, che viene riscoperto (“Zoraida di Granata”, che sarà eseguita nella versione del 1824, per il progetto “Donizetti200”, che prevede di allestire ogni anno un’opera che compie 200 anni esatti); un titolo della piena maturità, a lungo ingiustamente dimenticato, e tornato in auge negli ultimi decenni (“Roberto Devereux”, a mio parere uno dei massimi capolavori donizettiani); e un evergreen, risalente all’ultimo periodo parigino, nel quale Donizetti tornò alla tradizione dell’opera buffa per scriverne con ironia l’ultima pagina imperitura (“Don Pasquale”). Accanto alle tre opere, sono previsti alcuni concerti e, per i più coraggiosi, un “OpeRave” in cui la musica di Donizetti sposa l’elettronica ispirandosi alla vicenda di “Lucia di Lammermoor”. Insomma, per gli amanti dell’ultimo periodo del belcanto, la rassegna è da non perdere. Quest’anno sarà tra l’altro l’ultima edizione del festival sotto la direzione artistica di Francesco Micheli, che negli ultimi anni l’ha fatto crescere e gli ha dato un’identità. Si spera che il suo lavoro non vada sprecato nel cambio di dirigenza.
A Torino, il Teatro Regio ad ottobre ha portato in scena il progetto “Manon Manon Manon” ‒ di cui si è già scritto su queste colonne ‒ proponendo a date alterne le opere che Auber, Massenet e Puccini scrissero ispirandosi alle vicende di Manon Lescaut narrate nel romanzo dell’Abbé Prévost. Per quanto inserito all’inizio della programmazione stagionale, questo percorso ha avuto per molti versi il sapore di un festival tematico, e non ha mancato di attirare i melomani itineranti di tutta Europa. Finite le recite delle “Manon”, è arrivato il weekend torinese dell’arte contemporanea, durante il quale mi sono aggirato per Artissima alla ricerca di tracce musicali tra le opere di arte visiva. A parte qualche pezzo ormai storicizzato come “Pulchra sine anima” di Luciano Ori (che molto giocò con i riferimenti musicali nelle sue opere), sono emersi tre lavori degni di nota: Jacopo Mazzonelli ha realizzato una coppia di composizioni con martelletti di pianoforte modificati affissi a parete (Etude) e con gambe di pianoforte a coda assemblate (Axis). Jonathan Monk presenta un “Pavarotti” in cui la foto in bianco e nero del celebre tenore ha il volto coperto da alcuni strati di guazzo in cui si identificano elementi paesaggistici. Infine, Marinella Senatore, già vista l’anno scorso, nello stand di Mazzoleni, con i suoi collage che regolarmente includono spartiti musicali, espone “Opera!”. È forse questo il pezzo più raffinato, per il gradevole equilibrio compositivo dato dalla sovrapposizione, su fondo oro, di una pagina di partitura, di una figura femminile in controluce che pare nel gesto di dirigere un’orchestra e di alcuni elementi botanici e astratti.