Mancano ormai meno di cinque mesi dall’appuntamento annuale con il 96°Raduno Nazionale degli Alpini, che vede Biella come città ospitante. Per i partecipanti al raduno che dal 9 all’11 maggio arriveranno da ogni dove, uno dei posti iconici meritevoli di una visita si trova all’interno dei giardini pubblici Zumaglini, sul margine sud del centro storico cittadino. All’interno di questi giardini, molto amati dai bambini biellesi (e lo dico per esperienza personale, perché mezzo secolo fa ero anch’io un bambino biellese), c’è il Monumento ai Caduti. L’opera, un gruppo bronzeo scolpito da Pietro Canonica, inaugurato il 13 ottobre 1923 alla presenza del re Vittorio Emanuele III, si ispira alle due figure dell’alpino e del suo mulo.
Sul significato di quest’opera l’articolo di Gianfranco Ribaldone.
Storia di due umili eroi: l’alpino e il mulo
Se osservi con attenzione il gruppo bronzeo dei giardini Zumaglini a Biella, l’alpino e il mulo sono come mossi da una sola energia: è quasi impossibile immaginare l’alpino senza il mulo o il mulo senza il suo alpino. Sulla montagna, sotto il fuoco nemico, i due sono stati una sola cosa: capirsi senza suono di voce, soffrire senza lamento e, assieme, ogni giorno vincere la paura, ogni giorno affrontare con ardimento il pericolo. Lo scultore fissò nel bronzo l’armonia tra l’alpino e il fedele mulo, maturata nel dolore, volendo che la tenerezza abbracciasse tutti gli uomini e a tutti gli animali che avevano sofferto nel conflitto.
Il legame sulla montagna tra alpino e mulo durò più di 120 anni: dalla fondazione del Corpo degli Alpini nel 1872 fino all’asta degli ultimi ventiquattro muli dell’esercito nel 1993. In questo periodo la missione principale del “mulo soldato” fu quella di portare, su terreni impervi, armi, munizioni, viveri e attrezzature sanitarie, che altrimenti gli Alpini non avrebbero potuto portare a spalla. Il mulo, ibrido sterile, nato dall’unione di un asino con una cavalla, si nutre di foraggi grossolani ed è resistente a lunghi percorsi in condizioni al limite del possibile. Può vivere fino a 30 anni e più, ma la durata media della sua vita è intorno ai 20. Tra il quarto e il quinto anno veniva inviato ai reparti alpini, dove rimaneva fino all’età di 18-20 anni. Nella Grande guerra furono impiegate circa 500 migliaia di muli. Ognuno aveva un nome, ognuno un solo conducente.
Nella trincea piena di fango e di pulci, l’alpino sognava la casa dove era nato, il cortile dove aveva imparato a fare i primi passi, le storie ascoltate dalle nonne, le carezze ricevute dalla mamma, i giocattoli usati da bambino, il cibo sano che un tempo aveva mangiato, la fede in cui era stato educato, le preghiere che aveva imparato, gli animali a cui aveva accudito, i campi che aveva arato, le campane nel giorno di festa, la ragazza che aveva amato. La sua memoria era un paesaggio immenso, da percorrere ogni notte ancora una volta e forse l’ultima: nella mente raggiungeva la casa, faceva l’amore con la sua donna, l’abbracciava ancora una volta e un’altra ancora, ma intanto il sogno finiva, il sole spuntava, il cannone da lontano tuonava e gli occhi si spalancavano alle nuove atrocità.
Ma un “mulo soldato” quali sogni poteva fare? Il suo mondo era l’orrore della montagna. Ogni spavento, ogni percossa, ogni ferita, ogni caduta, ogni rimbombo di cannone, ogni urlo, ogni basto mal sistemato, ogni imbrigliatura mal fatta, ogni sentiero quasi impossibile da scalare, ogni precipizio da affrontare, ogni fango in cui affondare, ogni nugolo di tafani da sopportare, ogni sete da soffrire si incidevano nella memoria fresca e formidabile, creando dentro di lui il paesaggio di un girone infernale da percorrere sempre più in basso.Tuttavia, quasi sempre accadeva che il mulo trovasse un buon conducente. Se in passato era stato percosso, il mulo inizialmente scalciava, ma la pazienza dell’alpino vinceva a poco a poco ogni resistenza, con la calma, le carezze e la voce. Allora l’animale sensibile e bisognoso di amore tornava a fidarsi non del “pianeta uomo”, ma del suo conducente alpino, che gli voleva bene. Nel comune dolore, anche nel pericolo estremo, si creava un legame fortissimo, al punto che la morte di uno dei due era una lacerazione per chi sopravviveva.
Così anche Scudela, il mulo che fu decorato con Croce di Guerra e che il Canonica poi raffigurò nel nostro monumento ai Caduti, perse il suo alpino durante un durissimo scontro sul monte Tomba nel territorio di Pederobba nell’anno 1915 e tornò da solo al reparto dopo due giorni; del giovane era rimasto solo il cappello con la penna nera. Era il tempo del dolore muto e dell’amore muto, mentre sulla brulla montagna continuava a cantare il cannone.
Gianfranco Ribaldone
Caro Paolo. Se pur chi scrive è del dopo guerra, è stato un Alpino in armi, in un reparto dove i muli erano parte del sistema . Leggere il tuo articolo mi ha scosso ancor più, per la vera realtà che ho vissuto, se pur in tempo di pace, beninteso. Tuttavia il mulo era un amico inseparabile dal suo conducente e il cappello da alpino riempito al contrario, era la dose di acqua, massimo due cappelli, che gli veniva portato quando il fido quadrupede si fermava, non per stanchezza, ma per un processo fisiologico di autotutela, nessuno al mondo poteva scuoterlo. Solo dopo un certo tempo di riposo, Egli ( scrivo la E maiuscola non per refuso) riprendeva autonomamente la marcia. Lascio questa testimonianza di vita vissuta e ti ringrazio per avermi fatto scorrere nuovamente il brivido del freddo pungente del Trentino, delle marce sulla neve o sui prati verdi in un posto che poi è stato dichiarato patrimonio dell’umanità. Un brivido che è anche grande gioia, per un ricordo che rimarrà per sempre con me: e questa è la forza che tiene uniti gli alpini da sempre. Grazie e complimenti