Questa sera, pochi giri di parole, si parte subito. La notte è giovane, l’energia è alta, e il ritmo è quello che serve. Non c’è tempo da perdere. Mi lascio alle spalle il mio entusiasmo per le emozioni che ho vissuto nelle settimane passate, quelle forti, quelle che ti cambiano, che ti fanno capire il vero valore della musica. Ma questo mese, devo ammetterlo, non posso dire di aver vissuto le stesse sensazioni straordinarie. Non è che sia mancato il piacere di ascoltare buona musica, ma qualcosa di grande, qualcosa che ti lascia senza fiato, è stato più difficile da trovare. Eppure, c’è un però, anzi due.
Il primo, signori, si chiama Steve Hackett. Se non sapete di chi sto parlando, vi invito a fare attenzione: sto parlando della leggenda dei Genesis, di uno dei chitarristi più influenti della storia del rock. Avete capito bene, ho detto “leggenda”. Immaginate un uomo di 74 anni che suona ancora oggi la sua chitarra con una passione, una forza, una maestria che fanno sembrare che il tempo non sia mai passato. Eppure, mentre osservavo quella chitarra nelle sue mani, avevo la consapevolezza che stavo assistendo a qualcosa di straordinario, che non era più solo un concerto, ma un momento immortale della musica. La realtà è che ciò che ho visto con i miei occhi è davvero incancellabile.
Non è stato solo il concerto, ma quel che rappresentava. La potenza degli assoli che Steve Hackett ha regalato al pubblico è stato qualcosa che è difficile descrivere con le parole. Ogni singolo riff, ogni singola nota sembrava essere una pennellata di un quadro che non solo racconta la storia dei Genesis, ma un pezzo di storia della musica rock stessa. L’emozione che si è diffusa nell’aria, quel silenzio reverenziale che avvolgeva il pubblico mentre ogni accordo veniva suonato, è stata la testimonianza di quanto grande sia stata l’eredità di Hackett, che non ha mai smesso di brillare.
Quando ha intonato quelle note iconiche, quelle che hanno segnato la carriera dei Genesis, l’atmosfera è cambiata. Il pubblico ha riscoperto i migliori anni della band britannica, vivendo un viaggio che spaziava tra il passato e il presente, tra i suoni di un’epoca passata e quelli moderni, che però non hanno mai perso quella magia originale. Non si trattava solo di nostalgia, ma di un’energia che non ha avuto tempo di affievolirsi. La sua carriera da solista, con la bellezza di creazioni come “Spectral Mornings”, ha mostrato quanto fosse possibile reinventarsi pur rimanendo fedele a quella tradizione musicale che lo ha reso leggenda. Il pubblico, che con ogni probabilità rappresentava una generazione che ha visto nascere il rock progressivo, ha risposto con una standing ovation che ha invaso l’intero teatro. Le mani che battevano, i cuori che battevano all’unisono, erano la risposta a chi pensa che oggi la musica non sia più quella di una volta.
Mi piace pensare che quello che ho vissuto oggi, quella connessione tra la musica di Hackett e il pubblico, è una sensazione che altre persone, più di cinquant’anni fa, hanno potuto vivere. Molti mi hanno detto: “Ma non è più come una volta”. È vero, probabilmente non è lo stesso, non è la stessa atmosfera, ma è ancora musica che parla al cuore. Io, però, posso dire una cosa: oggi ho ascoltato la storia. E la cosa straordinaria è che ho avuto la consapevolezza di essere testimone di un momento che non ha tempo, di una storia che continua a vivere attraverso la musica e gli occhi di chi sa riconoscere la sua grandezza.
La musica ha il potere di fare questo: ci connette con il passato, ma lo fa in modo che ci sentiamo ancora parte di esso. Una canzone come “Spectral Mornings”, di Hackett, ci riporta a un’epoca in cui la musica sembrava parlare in modo più diretto, più puro, più autentico. Non sono solo suoni, ma emozioni in forma di note. E io che oggi ascolto quel brano, mi sembra di percorrere la stessa strada di coloro che l’hanno ascoltato la prima volta, di quelli che hanno vissuto quell’epoca con gli occhi di chi stava vivendo un futuro che, ora, è diventato storia.
Eppure, quella storia non è finita. Forse è vero che le cose non sono più come una volta, che lo spirito di quei giorni sembra lontano. Ma la verità è che, guardando Hackett su quel palco, ho visto come la musica possa sopravvivere, adattarsi, e soprattutto non perdere mai la sua magia. Due mondi e due visioni opposte, quello del passato e quello del presente, ma un’unità incredibile che ci fa capire quanto la musica sia un bene immortale, una cassaforte che protegge il valore di ciò che è stato creato.
Ora, mentre il concerto volge al termine, mi ritrovo a riflettere su ciò che ho vissuto. Non sono solo ricordi da portare con me, sono immagini, suoni, emozioni che rimarranno nella mia memoria. Ho avuto il privilegio di poter immortalare questi momenti con la fotocamera, ma, soprattutto, con gli occhi. Ho visto la storia, e oggi, come allora, il potere della musica è quello di fermare il tempo, di farci sentire vivi in ogni attimo che ci regala. A inizio articolo vi avevo parlato di due “però”, ma sinceramente non posso andare oltre, perché lo spazio a disposizione non basterebbe ed è troppo tardi per chiedere le due pagine centrali di “Cose Nostre”, ovviamente si scherza.
Ma per stasera è tempo di lasciarvi con l’ultimo brano della notte, un capolavoro che affonda le sue radici nel cuore degli anni ’80, un pezzo che continua a vivere in eterno: “Eye in the Sky” dei The Alan Parsons Project. v>
Sulle orme di una leggenda: la musica che non invecchia
Steve Hackett dei Genesis in concerto
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