“I dannati della ferrovia” è il titolo di un libro che mi ha catturato fin dalla prima pagina. Scritto da Alessandro Pellegatta, ex sindacalista ferroviere ora in pensione, è dedicato alla dura vita dei macchinisti delle locomotive a vapore. Un’esistenza faticosa e pericolosa, trascorsa a far funzionare quelle affascinanti ma dannate motrici. Racconta storie di uomini temprati dalla fatica, tragedie e disastri accaduti nella prima metà del Novecento. Uomini orgogliosi che con il loro lavoro unirono l’Italia dal Nord al Sud in tempi difficili, affrontando ogni tipo di condizione climatica e pericoli sempre in agguato.
Leggendo quelle pagine, mi sono chiesto chi siano oggi i macchinisti e come vivano il loro mestiere in un’epoca dominata dalla tecnologia e dall’informatica. Volevo capire come controllino quei moderni e possenti treni ad alta velocità. Ho chiesto a un amico di mettermi in contatto con suo figlio, macchinista delle “Frecce”, e lui ha accettato di incontrarmi. Davanti a un paio di birre, ci siamo messi a parlare.
“Marcello” – nome di fantasia – inizia a raccontare.
“Come sei diventato macchinista? Come vivi questo lavoro? Ho appena letto il libro di Pellegatta e sono rimasto sconvolto dalle condizioni di lavoro di quei tempi. Che tipo di lavoro è il vostro?”
Si mette comodo e risponde: – Sono entrato nelle ferrovie quasi per caso. Ero disoccupato e c’era un concorso, così ho partecipato e sono stato assunto. In un certo senso, ho seguito le orme di mio padre. Dopo il corso di addestramento, ho iniziato a lavorare sui treni regionali come secondo macchinista, per fare pratica. Quel libro lo conosciamo tutti. Tra noi c’è una sorta di riverenza verso quei macchinisti eroici. Pensa che in caso di incidente venivano arrestati immediatamente, a prescindere. Per questo, molti scappavano subito.
Lavorando con i vecchi macchinisti impari immediatamente una cosa: niente distrazioni, niente errori. Possono essere fatali e provocare disastri enormi. Un treno pesa centinaia di tonnellate: se non ti fermi al rosso, le conseguenze possono essere catastrofiche. Anche il lavoro sui treni intercity non era semplice. Non c’erano sistemi automatici di controllo: i segnali luminosi erano essenziali, e non esistevano possibilità di intervento dall’esterno come oggi. Eri il padrone assoluto del treno, e ogni errore poteva costare caro. È stata una vera scuola di vita. –
“ Qual è stata la tua carriera sui treni?”
Dopo alcuni anni sui regionali e sugli intercity, ho avuto l’opportunità di passare sui Frecciarossa. Superare l’esame tecnico è stato relativamente semplice, ma quello attitudinale e psicologico era molto più impegnativo. Inoltre, chi lavora sui treni, specialmente noi macchinisti, deve mantenere un’ottima condizione fisica: niente alcolici prima del turno, pasti leggeri… Praticamente seguiamo le stesse regole dei piloti d’aereo, e il motivo è chiaro, vista la grande responsabilità che abbiamo. –
“ Com’è stato passare ai “Freccia”?”
I Frecciarossa sono treni estremamente tecnologici. Ci sono sistemi automatici che intervengono se ti distrai. Non ci sono più segnali ottici sulle linee ad alta velocità: sono inutili, data la celerità del treno. In cabina hai tutti i comandi e i sistemi di controllo a portata di mano. L’informatica domina. Puoi monitorare tutto, dai motori in su, e intervenire in tempo reale con un semplice tocco. Questa complessità è ancora più marcata sui Frecciarossa 1000, dove puoi gestire ogni funzione anche da remoto. –
“ Chissà com’è stata la prima volta lì sopra…”
– La prima volta che ho guidato un Frecciarossa da solo ero terrorizzato, ma anche orgoglioso. Quando passi accanto a quel mostro colorato, tra i viaggiatori che si affrettano a salire, pensi: “Evidentemente mi ritengono affidabile e capace per affidarmi questo compito”. Poi entri in cabina e sai che la responsabilità è enorme. Non puoi distrarti, nemmeno con tutti i sistemi di controllo automatico. Sarebbe un grave errore. Non puoi permetterti di dare nulla per scontato.-
“Qual è il pericolo più grande?”
Non bisogna mai cadere nella trappola della troppa confidenza. Ma anche con tutta la preparazione, ci sono momenti in cui ti senti impotente. Qualche settimana fa, ad esempio, viaggiavamo sulla tratta Bologna-Milano in un nebbione incredibile, e il treno andava a trecento all’ora. Sai che tutto è sotto controllo, ma ti senti comunque perso, annichilito.-
“E il momento peggiore per un macchinista?”
– Il peggiore? Quando investi una persona. Se si tratta di un suicida, con il tempo te ne fai una ragione, anche se è difficile. Ma quando accadono tragedie come quella di Brandizzo, è devastante. All’inizio sei sotto shock, non capisci cosa sia successo davvero. Poi, quando realizzi, è terribile. Anche se non hai colpa, non riesci a capacitarti. Ti senti impotente. Non puoi fermare in pochi metri un treno di centinaia di tonnellate. È un dramma che vivi in presa diretta: vedi qualcuno sui binari, azioni la rapida, ma sai che non servirà. Sai che quella persona morirà, e non puoi fare nulla. Dopo incidenti simili, molti non riescono più a lavorare.-
Queste poche parole non rendono pienamente giustizia a questa categoria di lavoratori, che da duecento anni consente a milioni di persone di viaggiare. Grazie a loro il mondo è diventato più piccolo, le città lontane sono ora collegate e le persone di luoghi diversi possono incontrarsi. Il lavoro del macchinista, come tanti altri, richiede dedizione totale: giorno e notte, feriali e festivi, sempre.
Persone indispensabili, affidabili, temprate dai sacrifici e con un altissimo senso del dovere. Una rarità in questi tempi difficili.
Gli dico: “Grazie, Marcello. Quando viaggerò in treno, saprò di essere in buone mani. Ho un amico sincero là, in cabina di guida.”