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lunedì, Febbraio 17, 2025

    Perché ci meravigliamo ?

    Perché ci meravigliamo di certe cose che accadono nel mondo? In realtà, non dovremmo: si tratta di una routine, qualcosa di profondamente radicato nella nostra natura. Ma qual è questa “cosa” che non dovrebbe sorprenderci? Scopriamolo insieme, attraverso un ragionamento impietoso.

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    Spesso, senza rendercene conto, compiamo gesti quotidiani la cui portata ci sfugge. Si tratta di comportamenti radicati negli strati più profondi del nostro cervello, che affondano le radici in epoche ancestrali, nei tempi più remoti della storia umana. Ma di cosa stiamo parlando? Della guerra. Sì, quella pratica devastante che accompagna il genere umano fin dagli albori della sua esistenza. Pare che l’uomo non riesca a farne a meno: ogni epoca storica ha avuto i suoi conflitti, sempre giustificati come nobili e giusti dalle parti in lotta. Tuttavia, la domanda cruciale è: in quale angolo remoto della mente umana si nasconde questa pulsione? Quali processi psicologici e culturali hanno generato, nel corso dei millenni, il “brodo di coltura” da cui nasce questa tendenza?

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    La questione è complessa e possiamo fare solo congetture. Tuttavia, vale la pena chiederci se i nostri comportamenti quotidiani, spesso considerati normali, non siano in realtà contigui a quelli bellicosi. Pensiamo, ad esempio, alle guerre tra Stati. Perché due Paesi scelgono di combattersi anziché trovare un accordo? Non è lo stesso meccanismo che spinge due fratelli a scannarsi per un’eredità invece di collaborare? E che dire del politico che tenta di prevalere su un collega per ottenere un incarico prestigioso? Non è forse lo stesso schema che spinge un dipendente a “fare le scarpe” al collega per ottenere una promozione? Sono dinamiche che tutti conosciamo, anche se spesso non le riconosciamo come parte di un modello più ampio.

    Questa logica del conflitto si ritrova anche in ambiti apparentemente innocui. Pensiamo, a esempio, alle tifoserie calcistiche: bastano rivalità sportive a scatenare atteggiamenti ostili. O consideriamo le pulsioni che spingono molte persone a demonizzare gli immigrati, percepiti come minaccia. Non è un caso: spesso l’ostilità si rivolge contro chi è povero o vulnerabile, non contro chi è ricco, pur appartenendo a un’etnia diversa. Un altro esempio è dato dal modo in cui discutiamo problemi complessi, come la sanità o la scuola: la tendenza prevalente è sottolineare solo gli aspetti negativi, alimentando divisioni. Lo stesso vale per il “problema rom”: gli atteggiamenti ostili, anziché risolverlo, lo perpetuano.

    Concetti come patria e nazione, sebbene ritenuti nobili, sono spesso strumenti di divisione. La patria è sacra, dicono, e va difesa dai nemici. Ma tutte le patrie fanno lo stesso discorso. Le religioni spesso avallano questa logica: ogni esercito prega il proprio Dio per proteggere la propria terra, ignorando che i nemici pregano allo stesso modo. Il concetto di nazione, poi, definisce identità condivise basate su tradizioni e usanze che ogni popolo considera “le migliori”. Ma quante nazioni convivono all’interno della nostra amata Italia? E non sono spesso in contrapposizione tra loro? Questo tipo di divisioni costituisce un ostacolo a una vera unità europea, di cui avremmo tanto bisogno. Dietro i valori di patria e nazione si nascondono spesso interessi economici e politici legati al mercato, un motore di instabilità.

    È inevitabile riconoscere che la bellicosità fa parte del nostro DNA profondo. I grandi conflitti ne sono solo la manifestazione più evidente, l’ultimo anello di una pulsione congenita. Poche persone, nella storia, sono riuscite a emanciparsi completamente da questa tendenza. Forse non più di una decina.

    Allora, dobbiamo rassegnarci? Esistono alternative? Sì, possibili soluzioni ci sono. Ma invertire la rotta richiede un cambiamento radicale, un ripensamento delle nostre priorità e dei nostri valori. Come riuscirci? Lo spazio per ora è terminato. Ci riproveremo in un prossimo scritto.

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