È stato un editoriale de “La Stampa” di qualche tempo fa, a firma del direttore Andrea Malaguti, a stimolarmi questo scritto. Si raccontava la storia di Giada, una bambina a cui è stato necessario un delicatissimo intervento chirurgico al “Regina Margherita” di Torino. Giada, a soli sei anni, aveva un tumore maligno lungo quindici centimetri, grosso come un melone, appoggiato su un rene, sulla milza, sul fegato. È un fatto raro, ma non eccezionale. Eccezionali devono essere le persone che ti curano, il posto in cui sei ricoverato, gli infermieri che hai attorno e anche il coraggio. Chi ha la forza di aprire l’addome di un bambino e fare i conti con quello che troverà? Non sono tanti in Europa i chirurghi con queste capacità. Uno, però, fortunatamente, si trova proprio lì: è il direttore del reparto di chirurgia pediatrica, Fabrizio Gennari. Questo chirurgo ha lavorato per dodici ore consecutive per eliminare “la bestia” e ripulire perfettamente. Giada ora è salva.
A questo eccellente chirurgo pediatrico, in servizio presso un ospedale pubblico, è stato chiesto quale sia lo stato di salute della sanità pubblica oggi. Suo malgrado, ha descritto un quadro desolante: tagli di fondi, carriere costruite sulle amicizie e non sulle competenze, disorganizzazione diffusa, atavica disattenzione politica e baroni più interessati a difendere le loro poltrone e il loro prestigio. Esistono, certo, delle eccezioni e alcune regioni si dimostrano più virtuose di altre. Malgrado tutto Gennari conclude con ottimismo, pensando al caso appena risolto e alla soddisfazione di aver salvato una piccola vita, raccogliendo la riconoscenza della bambina e della sua famiglia.
Non molti anni fa avevamo un servizio sanitario di cui potevamo vantarci, un modello efficiente che altri Paesi ci invidiavano, e non solo per i casi eccezionali come quello descritto. Ci sono voluti trent’anni perché la norma costituzionale fosse tramutata in legge e divenisse pienamente efficace: successe soltanto nel 1978, grazie a Tina Anselmi, con l’emanazione della legge 833 che istituì il Sistema Sanitario Nazionale, ispirato a un modello universalistico. La legge rispondeva pienamente alla Costituzione, che all’articolo 32 definisce la salute come un bene comune, anzi un diritto fondamentale.
Prima di allora il sistema sanitario italiano era basato su un modello assicurativo-previdenziale, in cui il diritto alla cura era collegato alla condizione lavorativa e quindi non rappresentava un vero e proprio diritto di cittadinanza. Uno dei paradossi era che proprio i soggetti più vulnerabili e maggiormente esposti a malattie e rischi sociali, come disoccupati e lavoratori a basso reddito (e i loro famigliari), avevano possibilità ridotte di accedere a cure e assistenza adeguate.
A soli tre mesi dall’emanazione della legge, tuttavia, furono introdotti i “ticket” sui farmaci e sulle prestazioni sanitarie, una vera e propria “tassa sulla malattia” che, prevedendo la compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria, incrinava il principio della gratuità dell’accesso al sistema. Inoltre, il sistema dei partiti e importanti lobby economiche erano già in agguato, pronti a mettere le mani sul nuovo SSN. Piuttosto che sradicare clientelismo e corruzione, si preferì spostare il potere verso l’alto, verso il mercato e i super-manager, anziché verso il basso, giustificando questa scelta con la retorica secondo cui il privato sarebbe più efficiente del pubblico.
Il decreto legislativo n. 502 del 1992, voluto dal governo Amato con il ministro De Lorenzo istituì le Aziende Sanitarie Locali e Ospedaliere. Fu in quel momento che iniziò il lento processo di aziendalizzazione della sanità. Il 13 maggio 1999 venne approvata la legge n. 133, che determinò la soppressione del fondo sanitario nazionale, lasciando alle Regioni il compito di finanziare completamente il proprio servizio sanitario. La sanità divenne il primo esperimento del federalismo, i cui effetti deleteri sono ancora oggi evidenti. Questo errore ha provocato difficoltà ovunque, con particolare incidenza nelle regioni più povere, costringendo molte persone a spostarsi temporaneamente per ricevere cure adeguate o sottoporsi a interventi chirurgici sicuri.
Ora l’obiettivo principale dei direttori generali delle aziende sanitarie non è più rispondere ai bisogni di salute, ma raggiungere il pareggio di bilancio, un obiettivo cui è legato anche il loro premio retributivo. Il disastro della regionalizzazione è emerso tragicamente con l’esplosione della pandemia di Covid-19, quando protocolli e sistemi sanitari hanno dimostrato una tutela variabile in base alla diversa organizzazione e al grado di privatizzazione delle regioni.
Anziché tentare di rimediare, si continua a parlare di tagli che inevitabilmente favoriscono la sanità privata convenzionata e le compagnie di assicurazione. Non essendo del settore, vorrei coltivare la speranza che qualcuno, prima o poi, trovi la volontà e le capacità, come quell’eccellente chirurgo, di non abbandonare alla deriva il nostro SSN. Servirebbe raccogliere le energie positive che il Paese sa esprimere nei momenti difficili e coinvolgere tutti gli attori per rilanciare un grande progetto, come fu fatto quarantasei anni fa.
Grazie dottore! Storia del declino del sistema sanitario pubblico
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