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lunedì, Febbraio 17, 2025

    I giornali sotto la giacca

    Li ricordo quei tram stracolmi di umanità: grandi, e tanti, con i numeri 90 o 91 mi pare. Un’unica teoria sferragliante che al mattino presto trasportava una collettività scura, forse silenziosa, sicuramente assonnata e tutta con la coppola o un berrettino in testa d’inverno, col freddo, la nebbia (una volte c’era) a rappresentare tante regioni, in particolare quelle del sud.
    A parlare con qualcuno di loro capivi quanta fatica costasse l’appartenere a quel mondo a mille chilometri dal paese, ma c’era una sensazione di speranza nel futuro, anzi il sottile orgoglio di lavorare per il grande marchio.
    Potevi entrare ragazzino e fare carriera, come si diceva: entravi dal basso, con umiltà, sacrificio e qualche volta venivi ripagato.
    La busta paga era sicura, la pensione altrettanto.
    Non era certo una famiglia, tutt’altro: lotte continue, diritti negati, la sicurezza un mondo sconosciuto, il tutto sotto l’occhio di Giovanni Agnelli, l’Avvocato.
    Ma era la FIAT, bastava il nome.
    “Dove lavori?”.
    “Alla FIAT!”.
    “…Allora sei sistemato!”.
    Ogni giorno migliaia di lavoratori contribuivano a creare (non ho altri termini) delle icone in campo automobilistico e, cosa importante, se le potevano comprare.
    Spesso sentivi dire: “Io di questa faccio i freni,… Io la carrozzeria…”.
    Mio papà non saliva su quei tram, lui lavorava alla Lancia: andava e veniva in bici col caldo, il vento, la pioggia, anche la neve, e partiva nonostante mia madre lo esortasse a prendere i mezzi, ma lui sempre in bici, forte e sano. Per decenni, fino alla fine. D’inverno, come usava allora, metteva dei fogli di giornale sotto la giacca per proteggersi dal freddo e il berrettino ben calato sulla fronte per affrontare quella sorta di Calvario e arrivare al lavoro, sempre puntuale, possibilmente in anticipo e mai un giorno di  mutua.
    Lo ricordo tornare a casa stanco.
    Come tutti coloro che popolavano quegli stabilimenti grandi come città.
    Il lavoro non mancava e al tempo metteva insieme i Barbero, i Fenoglio, i Panero con i Morabito, i Sorrentino, i Greco.
    Negli anni le cose sono cambiate, peggiorate irrimediabilmente: ad oggi una valanga inesorabile sta annientando tutto il settore auto e, a cascata, non solo quello ma travolge speranze, prospettive, progetti, soprattutto per i più giovani ancora una volta. Ancora una volta sussidi, aiuti così, a pioggia, basta “avere le caratteristiche” giuste, per poi trovarsi il nulla davanti.
    Le invettive e le maledizioni contro Carlos Antunes Tavares non si contano più dopo il suo allontanamento da Stellantis, concordato o meno non lo sapremo mai; sicuramente ben remunerato. Ha portato a termine in maniera fredda e cristallina il suo compito: far arricchire gli azionisti. Punto.
    Il suo fine non era un piano industriale, creare lavoro, mantenere aperti gli impianti, mettere sul mercato nuovi modelli, ma ben altro; e lui lo ha fatto.
    John Elkann con quella espressione plastificata e sempre uguale si è nascosto, si nega, sembra scomparso, salvo una visita alla Maserati con i lavoratori in cassa integrazione, sorridente, spocchioso, antipatico come pochi esseri al mondo, prima di ritornare nella sua tana. Un tempo un imprenditore si sarebbe vergognato; oggi no.
    Non mi dilungo perché ormai sono argomenti che ci entrano anche dai pori della pelle, e fanno male.
    E fanno male le solite e consuete frasi che sanno, anzi, sono un oltraggio a coloro che subiranno l’umiliazione di perdere il lavoro: “Abbiamo un piano di industrializzazione…, i nuovi modelli a fine 2025…, l’Italia è centrale per noi…ci stiamo riorganizzando…Faremo…Vedremo…”.
    Stellantis e la famiglia di cui sopra stanno all’industria automobilistica come il cancro al corpo umano.
    Ci ritroviamo una economia ferma, nella quale quel poco rimasto non è nemmeno più di proprietà italiana, e questo torpore si sta trasformando in un lungo sonno dal quale le nostre industrie forse non si risveglieranno: l’indotto è allo sbando, nell’incertezza, tra la cassa e i licenziamenti. Ma veramente l’economia è diventato questo? Praticamente soldi che fanno soldi; il lavoro non c’entra, le persone non servono più, e intanto il governo continua a sbandierare successi di una economia che solo lei vede andar bene.
    Quei tram stracarichi di lavoratori, quell’uomo in bici sulla neve, appartengono ad un passato che non vedremo mai più.

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    Luciano Simonetti
    Luciano Simonetti
    Sono Luciano Simonetti, impiegato presso una azienda facente parte di un gruppo americano. Abito a Caselle Torinese e nacqui a Torino nel 1959. Adoro scrivere, pur non sapendolo fare, e ammiro con una punta di invidia coloro che hanno fatto della scrittura un mestiere. Lavoro a parte, nel tempo libero da impegni vari, amo inforcare la bici, camminare, almeno fin quando le articolazioni non mi fanno ricordare l’età. Ascolto molta musica, di tutti i generi, anche se la mia preferita è quella nata nel periodo ‘60, ’70, brodo primordiale di meraviglie immortali. Quando all’inizio del 2016 mi fu proposta la collaborazione con COSE NOSTRE, mi sono tremati i polsi: così ho iniziato a mettere per iscritto i miei piccoli pensieri. Scrivere è un esercizio che mi rilassa, una sorta di terapia per comunicare o semplicemente ricordare.

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