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lunedì, Febbraio 17, 2025

    Salvate Sant’Agata!

    Il recupero della villa di Giuseppe Verdi

    C’è un nome che intenerisce noi verdiani irriducibili, e questo nome è “Sant’Agata”, la villa presso Villanova sull’Arda (PC) che fu abitazione del compositore per circa cinquant’anni.
    Dopo le dure vicende che hanno visto contrapporsi i vari membri della famiglia Carrara-Verdi (gli eredi di Verdi), quel nome è tornato a galla risuonando come uno svegliarino durante l’inaugurazione del Teatro alla Scala”: “Salvate Sant’Agata!”.
    Opportuna esortazione. Infatti l’edificio richiedeva d’essere recuperato prima che una paventata vendita a terzi finisse col ridurlo a rudere. Bisognava procedere all’esproprio, sottrarlo ai litigiosi eredi, risanarlo e farlo riaprire alle visite, come d’altronde era stato in precedenza: negli Anni ’70 e ’80 ricordo ancora le mie visite emozionatissime!
    Già qualche tempo fa si dovette ricorrere a un decreto tribunalizio per recuperare e mettere a disposizione degli specialisti un preziosissimo baule contenente schizzi e appunti; ma, salvato il baule, adesso si è rischiato forte che in malora ci andasse tutto il resto. Le ultime alluvioni hanno danneggiato intonaci e tetto, e anche il giardino (ideato pezzo per pezzo da Verdi come se fosse stato uno spartito musicale) si sta già disfacendo. È vero che dai 30 milioni valutati dal TAR si è scesi prima a 20 e ora a 7,6 – ma il livello di scontentezza degli eredi ci interessa poco o niente a fronte della gioia di sapere che il luogo sacro, nelle mani del Ministero della Cultura, si salverà, verrà restaurato e tornerà visitabile.
    Alla metà dell’ Ottocento, Verdi, ormai sparato sulla strada dei successi e della fama, iniziò ad acquistare tenute e poderi nella zona di Villanova, per un istinto che lo legava alla terra ma anche per allontanarsi da Busseto, dove, dopo il suo ritorno da Parigi con la convivente Giuseppina Strepponi, l’atmosfera si era fatta pesante e critica. Nella vastità di quei campi c’era una casa, o villa, abbastanza in cattivo stato: decise che lì avrebbe stabilito la sua dimora. Fu l’inizio di lavori continui, stressanti, di allargamenti e migliorie, di aggiunte e modifiche. Nell’impazienza di allontanarsi da Busseto, vi si trasferì addirittura nella primavera del 1851, quando l’edificio era ancora uno scheletro in costruzione e dovunque si affondava fra mucchi di calcina e mattoni. Ma a Verdi quei lavori erano entrati nella pelle, li sentiva come un necessario sfogo dopo la tensione del comporre, un suo pallino, un suo hobby. Come anni dopo ricordò Giuseppina scrivendo a Clarina Maffei: “…Si cominciò con infinito nostro piacere a piantare un giardino […] questo giardino domandava una casa un po’ meno colonica; Verdi si trasformò in architetto, e non ti posso dire, durante la fabbrica, le passeggiate, i balli dei letti, dei comò, e di tutti i mobili. Ti basti che, eccettuato in cucina, in cantina e nella stalla, abbiamo dormito e mangiato in tutti i buchi della casa.”
    E altrove: “Il suo amore per la campagna è divenuto mania, follia, rabbia, furore, tutto ciò che si può immaginare di più esagerato. Egli si alza al nascere del giorno per andare a esaminare il grano, il mais, la vigna.” Ed ancora: “…se tu gli dici che Don Carlos non val niente non gliene importa un fico, ma se tu gli contrasti la sua abilità nel fare il magut [il muratore] se n’ha a male…”  Del resto fu sempre chiaro che Verdi non inseguiva la bellezza ma la funzionalità; sapeva che una località nella bassa piacentina, sostanzialmente agricola, defilata, stretta fra l’Arda, l’Ongina e il Po, era un posto per lavorarci sodo, non per attrattive panoramiche. Viverci era una scelta: “Una vita che imbestialisce, ma che almeno è tranquilla”, come scrisse lui stesso.
    E adesso torneremo. Torneremo in quelle stanze al piano terra ad ammirare sia il pianoforte su cui ‘il Mago’ (soprannome datogli da Giuseppina) compose quasi tutte le sue opere dal 1851 in poi, che la spinetta di quarta mano regalatagli quand’era bambino da un artigiano “vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi”; rivedremo i suoi mobili, la sua libreria, i suoi quadri, i soprammobili che lui toccava, il ‘Verdi’ accigliato dello scultore Gemito…
    Usciremo nel giardino e ci inoltreremo fra il verde, dove potremo  inciampare nella tomba di Lulù (l’amato cagnolino) per poi visitare la grotta fungente da ghiacciaia, guardare il laghetto (non era che una pozzanghera ma Verdi s’incaponì e ne fece un laghetto) e la fila di alberi che portano ciascuno il nome di una sua opera…
    Salvare Sant’Agata dallo smembramento e ristrutturarla è a mio parere un passo necessario per essere considerati un popolo civile. Mi auguro che le attuali promesse si realizzino senza troppi ritardi e, in momenti in cui non c’è niente di cui rallegrarsi, mi rallegro pensando che con quest’azione ci riscattiamo dalle tante cose malfatte, dai progetti dimenticati o persi per strada. Alberto Mattioli in un suo recente articolo su La Stampa ha osservato che “Verdi non era uno di noi: era il migliore di tutti noi, modello perenne non di quello che siamo, ma di quello che dovremmo essere”. Nel leggere questa frase, ci credete che mi sono commossa?

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    Luisa Forlano
    Luisa Forlano
    Luisa Camilla Forlano è nata a Boscomarengo, in provincia di Alessandria, e vive a Torino. Oltre all’amore per la Musica coltiva assiduamente quello per la Storia, in particolare per l’antichità classica, ma anche per i secoli a noi più vicini, quelli della rinascita della ragione. Ed è stato nel desiderio di far rivivere alcuni momenti storici cruciali che si è affacciata al mondo della narrativa: nel 2007 col suo primo romanzo “Un punto fra due eternità”, un inquietante amore ai tempi del Re Sole; e poi con “Come spie degli dèi” (2010), che conserva un aggancio ideale col precedente in quanto mette in scena le vicende dei lontani discendenti del protagonista del primo romanzo. In entrambe le narrazioni la scrupolosa ricostruzione storica costituisce il fil rouge da cui si dipanano appassionanti vicende umane, fra loro differenti, ma fortemente radicate nella realtà storica del momento.

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