Jan van Eick, Angeli cantori
Non sapremo mai lodare abbastanza la grande spinta data dal ‘500 (il secolo XVI) verso la modernità: un secolo che cancellò un millennio di regressioni tecniche e intellettuali e preparò il grandioso risveglio dei secoli successivi. Questo avvenne in moltissimi campi, ma soprattutto in quello che interessa a noi, la musica.
L’invenzione della stampa fu la grande piattaforma da cui partì ogni nuova conquista. All’inizio del secolo giganteggiava in tutt’Europa, ed anche in Italia, il canto polifonico di origine fiamminga, con l’aggiunta della meravigliosa invenzione tutta italiana del madrigale a più voci (all’inizio a 4, poi a 6, per arrivare persino a 10). All’arte finissima di Adrian Willaert, Orlando di Lasso, Cipriano de Rore, Andrea Gabrieli, Luca Marenzio, si aggiunse verso la fine del secolo l’arte complessa e patetica di Carlo Gesualdo da Venosa e dei primi Libri di Claudio Monteverdi, oltre a quella (in campo sacro) di Giovanni Pierluigi da Palestrina. La polifonia madrigalistica splendeva come un arcobaleno di luce in tutti i posti dove si voleva amare il bello, case di nobili, luoghi di ritrovo, corti rinascimentali. Ferrara, Mantova e Venezia erano i luoghi magici in cui la bellezza si trasformava in suono.
Ma nel frattempo andavano sviluppandosi avvenimenti politici e religiosi capaci di sconvolgere anche il mondo dell’arte. La riforma protestante, iniziata nel 1517 da Martin Lutero e duramente avversata da parte cattolica, non solo causò guerre di religione per oltre un secolo e mezzo, ma rischiò addirittura di sfrattare la musica dalle funzioni in chiesa. È noto che, in ulteriore polemica con Lutero, il Concilio di Trento si era orientato verso l’esclusione di qualsiasi canto o suono (a parte il gregoriano) all’interno dei luoghi sacri; salvo poi accettare che ci fossero interventi musicali a patto che le parole dei testi cantati risultassero perfettamente comprensibili ai fedeli. Questo escluse in modo automatico la polifonia, i cui procedimenti basati su canoni imitativi impedivano l’esatta percezione delle parole. Si dice che sia stato proprio Pierluigi da Palestrina, con la sua “Missa Papae Marcelli” a salvare il destino della musica da chiesa, in quanto la sua scrittura, pur strettamente polifonica, lasciava spazio sufficiente ad intendere il testo. In questo modo riuscì, non si sa come, a superare l’esame dei severi oppositori.
Frattanto nei paesi protestanti si sviluppavano sia il Corale che lo stile monofonico, entrambi prediletti da Lutero: “Una persona che sa ragionare e che però non considera la musica come un meraviglioso dono di Dio, è un vero ignorante immeritevole d’essere chiamato essere umano; non gli si dovrebbe far ascoltare che ragli d’asino e grugniti di maiali.” Con questa e altre frasi consimili, Lutero esaltò l’arte musicale e la inserì, anzi la impose, al consorzio umano, ponendo così le basi per le future conquiste artistiche nell’area germanica. Non concepiva alcun rito religioso senza il canto, vale a dire senza il canto dei fedeli coinvolti di persona nello svolgimento della funzione.
Invece in Italia, polo importantissimo della musica europea, si continuava a cercare il modo di dribblare l’invadenza del polifonismo, il gusto e la moda lo dicevano superato, ma i tentativi di accantonarlo trovavano resistenza negli stessi compositori che consideravano povero e sciatto il linguaggio della monodia. Eppure lentamente ma inarrestabilmente lo stile monodico si imponeva. La posizione della Chiesa contro la polifonia aveva accelerato il movimento intellettuale che da tempo sondava tutte le possibili espressività del canto solistico, cioè della musica cantata da un “solo” oppure da un coro omofono. Si trattava di una procedura antica, nel Medio Evo se n’era fatto largo impiego, ma poi era caduta in disuso e si era persa. La Camerata dei Bardi a Firenze fu il più importante di questi laboratori di ricerca fonica. Mirava alla semplificazione, a dar spazio alla genuinità della musica popolare, ad imitare la naturalezza del discorso parlato, per cui vagheggiava un “melodramma” sostenuto dalla tecnica detta “recitar cantando” (nell’errata opinione che le tragedie greche fossero state un tempo cantate). Molti furono i tentativi, non tutti giunti fino a noi: però verso la fine del secolo la “Dafne” di Jacopo Peri e l’“Euridice” di Giulio Caccini possono tranquillamente essere considerate le capostipiti di quel genere nuovo che entro breve avrebbe “spopolato”.
Così la meravigliosa astrazione dello stile polifonico fu sconfitta. Finiva l’epoca del contrappunto, incominciava l’epoca della monodia. Di fatto l’ “Orfeo” di Monteverdi dato a Mantova il 24 febbraio 1607 viene ritenuto la prima vera opera lirica. In parallelo, nel campo della musica sacra, per non lasciare troppo spazio agli argomenti profani si cominciava a sviluppare una specie di opera-non-teatrale, cioè senza scene e costumi, di argomento biblico o comunque moralistico, denominata, dai luoghi dove di solito veniva eseguita, “oratorio”.
Dell’Oratorio, una grande invenzione che sta alla pari con l’Opera Lirica, magari parleremo la prossima volta.