Intorno al 5000 a.C. circa, gruppi di raccoglitori e cacciatori si misero a coltivare mais nell’altopiano del Messico con il duplice effetto di diventare stanziali in quella zona e di rendere questa pianta il fondamento dell’alimentazione e della cultura mesoamericana. Questi coltivatori decisero di stabilirsi in villaggi all’incirca quando in Egitto si costruiva la piramide di Chefren, e a questa sedentarizzazione si fa coincidere l’inizio dell’epoca preclassica dei Maya che va dal 2500 a.C. fino al 200 d.C.. Oltre a essere agricoltori, i Maya cacciavano tutto ciò che era disponibile. Una tecnica era quella classica della cerbottana, ma venivano impiegate anche reti, trappole e fionde. Nel caso del cervo, la caccia diventava comunitaria ma quella più diffusa era forse quella agli uccelli, specialmente quella al sacro quetzal, le cui piume erano utilizzate per decorazioni, motivi rituali e di scambio. Altra attività fondamentale era la pesca sia con reti sia con fiocina, ma anche attraverso l’avvelenamento delle acque con sostanze ottenute da radici o da erbe inebrianti e la pesca, in questo caso, si limitava alla raccolta di animali storditi. I molluschi, oltre a cibarsene, venivano utilizzati anche per tingere i tessuti.
Durante il periodo preclassico queste bande di raccoglitori-cacciatori americani assunsero una loro visione del mondo che avrebbero espresso nella mitologia e nella religione. La coltivazione del mais nacque in un ambiente arido ma caratterizzato da un’intensa stagione piovosa. Il successo del raccolto dipendeva perciò dal giusto equilibrio del secco e dell’umido: per questo motivo da un lato vediamo il Sole, secco, caldo e celeste e dall’altro la pioggia, rappresentata dai grandi mascheroni del dio Chaac, scolpiti in pietra calcarea nell’imponente architettura in stile Puuc della regione dello Yucatan. L’equilibrio di queste due entità contrapposte erano il fondamento del prosperare del raccolto; di contro il predominio anche temporaneo di una delle due significava carestia, morte o addirittura estinzione.
È probabile che questa dicotomia aveva spinto a una visione dualistica del cosmo, al di sopra della quale governava un ordine che permetteva l’alternarsi delle stagioni. Gli stessi ritrovamenti archeologici a Chichén Itzà, il centro più importante dell’età postclassica (sec. X-XVI), confermano la visione di questo cosmo suddiviso in due parti contrapposte e complementari. Anche l’essere umano aveva in sé due componenti: nasceva umido dell’essenza delle dee madri, acquoso e cedevole; con gli anni, poi, i raggi solari lo solidificavano e gli riscaldavano il cuore. I sacerdoti e gli astrologi conoscevano quest’ordine e cercavano di penetrarlo attraverso l’estasi determinata dal digiuno, con l’ingestione di sostanze psicotrope o con lesioni dolorose che si autopraticavano con l’utilizzo delle spine di razza.
I Maya erano di religione politeista e le loro divinità erano intercambiabili come gli elementi della natura, ovvero uno stesso dio poteva possedere molte sfumature. Inoltre i Maya, divenuti agricoltori, cominciarono a tenere in forte considerazione lo scorrere del tempo. Ogni cosa, ogni raccolto, ogni immagazzinamento di beni doveva avvenire in uno specifico momento e in una data stagione. Era perciò necessario tenere sotto controllo il tempo, dominarlo, conoscerlo e numerarlo, ovvero elaborare un calendario nel quale divinità e uomini potevano convivere con regolarità. Da qui la precisione dei calendari maya, che combinavano vari cicli temporali di diversa ampiezza e i principali erano due: uno, di 365 giorni, scandiva le attività lavorative e le feste religiose; l’altro, di 260 giorni, era di uso esclusivamente divinatorio. Entrambi scorrevano in maniera parallela e indipendente, ma il punto al termine del quale essi tornavano a coincidere aveva grande importanza e dava origine a un ciclo più grande. Questo era il secolo mesoamericano, che veniva festeggiato con il rito della “Legatura degli anni”. Ogni fuoco veniva spento e si attendeva che le stelle giungessero in una data posizione per conoscere il momento esatto del sacrificio umano. Si accendeva una fiamma sul petto di uno dei tanti prigionieri destinati ai sacrifici: alla prima fiammella un’esplosione di gioia percorreva i fedeli, ormai certi che il regno del Quinto Sole, il mondo in cui vivevano, sarebbe continuato. Nelle culture mesoamericane, il Quinto Sole, che governava la nostra epoca, nato da un volontario autosacrificio della divinità, era anch’esso destinato a perire, nonostante gli uomini sacrificavano sé stessi per placarlo. In una sorta di scambio cosmico, gli dei potevano essere considerati come il mais del popolo, mentre quest’ultimo costituiva le tortillas per nutrire gli dei. In questa visione dell’universo, sacrificando la gente, si poteva scongiurare la fine del mondo, sia pure temporaneamente. I sacrifici umani davano ai sacerdoti una sorta di freno per ritardare la catastrofe cosmica. La Pietra del Sole è un disco di basalto azteco conservato al Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico, che riporta il tipico calendario maya. Al centro si staglia il volto del Quinto Sole e nel primo cerchio interno sono raffigurati i primi quattro Soli, al termine delle cui epoche l’umanità si estingue. Nel complesso, la Pietra del Sole è un calendario solare che stabilisce le stagioni, ma funge anche da compendio cosmologico.
Nel periodo postclassico, ca. 900-1500 d.C., l’intero Mesoamerica divenne teatro di forte instabilità politica e si registrò una forte crescita del militarismo. La stessa religione indossò abiti politici e bellici. Gli dei si armavano: si ritrovano ovunque simboli di guerra nei templi, e giaguari, puma, coyote e uccelli rapaci venivano raffigurati mentre divoravano cuori, crani e ossa. Erano i “signori della guerra” che reclamavano vittime e sangue umano. Nasceva così la “Guerra fiorita”, una sorta di caccia all’uomo organizzata sotto forma di battaglie: un esercizio destinato alla cattura di vittime da sacrificare. Fare la guerra per i Maya, come per i vicini Aztechi, avrebbe significato trovare prigionieri, vittime da sacrificare agli dei per ricavarne acqua preziosa, il chalchihuati, cioè il sangue, il loro alimento principale senza il quale tutto il pantheon maya avrebbe rischiato di soccombere.
La civiltà precolombiana dei Maya
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