Una mostra di immagini che vanno oltre: sensibilità, padronanza della tecnica fotografica, rapporto con il colore, con la luce, con la percezione della realtà che superano il complicato rapporto spazio-tempo. Una mostra che avvolge nelle spire dei cambiamenti epocali della cultura millenaria di un paese affascinante quale è la Cina: questa è “Olivo Barbieri. Spazi altri”, a cura di Corrado Benigni, visitabile sino al prossimo 7 settembre alle Gallerie d’Italia – Torino, piazza san Carlo 156.
L’esposizione celebra Olivo Barbieri, fotografo originalissimo, e la sintesi della sua ricerca dedicata alla Cina nell’arco di trent’anni, dal 1989 al 2019.È suddivisa in tre sezioni: Appunti di viaggio in Cina 1898 e Paesaggi in miniatura 1990, con due quadrerie di 77 e 42 immagini, Of Other Spaces con un polittico composto in 10 parti,4 trittici e 12 lavori di grandi dimensioni.

Olivo Barbieri (Carpi – Modena, 1954) negli anni ’80 rivolge il suo interesse e la sua fotografia sull’illuminazione artificiale nelle città europee e orientali; dal 1989 compie numerosi viaggi in Cina per osservare il grande cambiamento di un Paese che coinvolge anche tutto l’occidente. Le sue fotografie testimoniano la metamorfosi dalla Cina rurale a quella ipertecnologica, ed il variare della tecnica utilizzata per fermare le immagini che si sono trasformate con i tempi; i meccanismi della percezione di un luogo si amalgamano con quelli utilizzati per rappresentarlo. Infatti: “il progetto è iniziato con il sistema analogico, quasi ottocentesco” spiega l’autore “per giungere a quello delle più sofisticate tecnologie digitali, diventate strumenti per raccontare le immagini del mondo”. Barbieri ha colto le polarità ed i contrasti di un Paese tra nette antitesi: frenesia e vuoto, postmodernità e arcaico. Bellissimo esempio è la grande fotografia “Canton, China” (1998) dove su un cielo, dapprima di un saturo color pervinca gradatamente sfuma in una nebbia lattiginosa, si stagliano, in una eloquente prospettiva, fisica e mentale, fatiscenti palazzotti a sei piani, ancora abitati, carichi di umanità e panni stesi, contornati da macerie, dove anche la vegetazione che dovrebbe ricoprire il modesto prospetto è rinsecchita. E sullo sfondo, ma non al fondo del messaggio, un futuristico, asettico grattacielo che quasi si confonde cromaticamente con il cielo.
“Fin da subito Barbieri osserva come questo Paese-continente stava vistosamente sovrapponendo alla propria ricchissima storia millenaria modelli capitalistici della cultura americana, Las Vegas in primis, ed europea, con l’arte statuaria romana e colonne greche come simbolo di ricchezza ” precisa Corrado Benigni.
In “Shanghai” (2001) un abbagliante e trafficato incrocio di strade, sovrappassi e sottopassi pare sia staticamente sostenuto da una possente colonna, seppur decorata con elementi di gusto orientale, che richiama fortemente l’architettura classica.
Il dualismo del Paese orientale caratterizza l’arte di Olivo Barbieri, le cui immagini, lontane da intenti documentaristici, scorrono tra vero e raffigurazione del vero, tra mondo immaginato e mondo riprodotto, muovendosi tra illusione e rappresentazione del reale; è un’arte che indaga sull’atto del vedere, piuttosto che sulla restituzione di un’immagine realistico-identitaria.
Così come ha visto e interpretato in “Linyi, China” (2001) il crollo di una vecchia struttura edilizia (emblema della società o della cultura?) che si erge da un cumulo di macerie alla quale fanno da sfondo una anonima serie di palazzi annebbiati e un altrettanto cielo nebuloso, biancastro, tutto tono su tono.
In mostra scorrono trent’anni di storia cinese, ma anche gli stili ed i meccanicismi propri della sensibilità espressiva di Olivo Barbieri dati dall’attenzione alla luce artificiale, all’utilizzo di colori saturi e non naturali, le sfocature della scena, il fuoco selettivo, l’uso dei rendering, la miniaturizzazione, la mescolanza di negativo e positivo, l’evidente verticalità ottenuta fotografando dall’alto, su un elicottero in volo. Le opere di Barbieri non sono semplici fotografie, ma sono una “continua indagine sul senso del suo stesso guardare, fotografare, creare immagini” e come ha spesso ripetuto l’artista “il soggetto della fotografia è la fotografia stessa”.