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martedì, Luglio 8, 2025

    Un nome nuovo per un vecchio istinto: il Doomscrolling


    C’è un gesto diventato automatico, quasi istintivo. Prendiamo in mano il telefono, lo sblocchiamo senza nemmeno pensarci, apriamo un social, un sito di notizie, una piattaforma qualunque. E iniziamo a scorrere. Notizie, aggiornamenti, commenti, titoli. Passano pochi minuti e il tono diventa evidente: guerra in Medio Oriente, emergenze climatiche, disastri naturali, scandali politici, tragedie personali rese pubbliche. Non era nostra intenzione iniziare la giornata così. Magari volevamo solo controllare il meteo o leggere due righe sul traffico. Eppure, eccoci lì, dieci, quindici, venti minuti dopo, ancora immersi in una spirale di contenuti sempre più cupi. È il doomscrolling che ha preso il sopravvento.
    Il termine doomscrolling nasce nel mondo anglosassone e si diffonde rapidamente in tutto il mondo con l’avvento dei social network. Unisce “doom” – rovina, sciagura, fine del mondo – e “scrolling” – lo scorrere infinito delle pagine digitali. Non si tratta semplicemente di leggere cattive notizie: è l’atto ripetitivo, spesso compulsivo, di cercare contenuti negativi, anche quando ci fanno stare male. E, soprattutto, anche quando potremmo smettere.
    Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è un’abitudine confinata a chi ha tempo da perdere o ai giovanissimi incollati a TikTok. Il doomscrolling riguarda tutti: studenti, genitori, lavoratori, pensionati. Ha poco a che fare con l’età, e molto con il contesto in cui viviamo. Perché in un’epoca segnata da crisi continue e incertezze globali, la tentazione di “restare aggiornati” diventa una trappola invisibile.
    Perché il negativo ci attrae così tanto?
    Diversi studi in ambito psicologico hanno cercato di capire le ragioni profonde di questo comportamento. Una delle più accreditate è il cosiddetto bias della negatività: il nostro cervello, per motivi evolutivi, tende a prestare maggiore attenzione alle informazioni minacciose. In un tempo in cui sopravvivere significava saper riconoscere i pericoli in tempo reale, concentrarsi sul negativo era una questione di vita o di morte. Oggi, questo stesso meccanismo ci porta a cliccare su titoli sensazionalistici, a leggere fino in fondo articoli deprimenti, a guardarci l’ennesimo video allarmante. A questo si aggiunge il bisogno di controllo. In un mondo dove tutto sembra instabile – clima, economia, politica, relazioni sociali – informarsi di continuo ci dà l’illusione di avere il polso della situazione. Sapere cosa sta succedendo diventa un modo per ridurre l’ansia. Ma spesso accade l’opposto: più leggiamo, più ci sentiamo sopraffatti. E poi c’è lei, la FOMO – Fear Of Missing Out – quella paura latente di perdere qualcosa, di non essere “sul pezzo”. I social hanno esasperato questa sensazione: basta un attimo di disconnessione per temere di non sapere l’ultima novità, l’ultimo scandalo, l’ultima tragedia.
    Ma c’è un prezzo da pagare, anche se non ce ne accorgiamo. Il problema non è solo il tempo sprecato o la malinconia che ci assale dopo l’ennesima sessione di doomscrolling. Le conseguenze sono ben più gravi – e misurabili. Secondo una ricerca dell’Università del Texas pubblicata nel 2022, chi mostra un uso problematico delle notizie online ha il 74% di probabilità in più di manifestare sintomi ansiosi o depressivi rispetto alla media. Un altro studio citato dal Daily Telegraph evidenzia come questa abitudine incida negativamente sulla qualità del sonno, aumentando il rischio di insonnia, risvegli notturni e stanchezza cronica. Ma non è tutto. Il corpo, come sempre, paga il conto: tensioni muscolari, mal di testa, affaticamento visivo, irritabilità. Non siamo progettati per assorbire continuamente cattive notizie, e il nostro sistema nervoso finisce per andare in tilt.
    Durante la pandemia da COVID-19, il doomscrolling ha trovato terreno fertile. Chiusi in casa, incollati agli schermi, in cerca di aggiornamenti costanti, siamo entrati in un circolo vizioso. All’inizio c’era il bisogno reale di sapere: nuovi decreti, dati sui contagi, indicazioni sanitarie. Ma presto l’informazione si è fusa con l’ansia, fino a diventare un automatismo dannoso. Uno studio del 2024 ha confermato che un terzo degli adulti americani pratica regolarmente il doomscrolling. E l’Europa non è messa meglio. La distinzione tra “restare informati” e “consumare notizie come ansiolitici (inefficaci)” si fa sempre più sottile.
    Uscirne non è impossibile, ma richiede consapevolezza. Non si tratta di spegnere il cervello o ignorare il mondo. Anzi: essere informati è fondamentale. Ma possiamo scegliere come farlo. Impostare limiti di tempo sulle app – usando timer o notifiche – è un primo passo. Creare momenti della giornata “senza schermo”, come l’ora prima di dormire o la colazione, aiuta a disintossicarsi. Un’altra strategia utile è selezionare con cura le fonti: evitare siti notoriamente sensazionalistici, privilegiare il giornalismo di qualità (e magari leggere giornali cartacei, come Cose Nostre…), anche scegliendo newsletter tematiche invece di scrollare i feed social. Infine, recuperare il contatto con attività che abbassano il livello di allerta: leggere un romanzo, fare una passeggiata, ascoltare musica, meditare. Piccole abitudini che funzionano da contrappeso al bombardamento informativo.
    È necessario trovare un nuovo concetto di equilibrio. In un’epoca che ci spinge a essere sempre connessi, sapere quando e come disconnettersi diventa una competenza vitale. Il doomscrolling non è solo un’abitudine nociva: è il sintomo di una società sovraccarica di stimoli e priva di pause. Essere informati non deve significare essere costantemente in allerta. C’è un confine – sottile, ma reale – tra attenzione e ossessione. Imparare a riconoscerlo è il primo passo per proteggerci, non solo dal flusso di brutte notizie, ma dal rischio, ben più grave, di perdere lucidità, serenità e benessere.

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