Partiamo da lontano. Proviamo a cercare le prime tracce letterarie di Torino nel 218 a.C.: anno in cui la futura Augusta Taurinorum entrò nella storia a seguito di un evento non proprio positivo…
Infatti, nell’autunno di quell’anno, Annibale valicò le Alpi e scese, probabilmente, in Valle di Susa, con il grosso delle sue truppe e forse i mitici trentasette elefanti, dirigendosi poi verso il paese dei Taurini. Queste genti “abitanti proprio ai piedi della catena alpina, erano in lotta con gli Insubri e si mostravano diffidenti nei confronti dei Cartaginesi; dapprima li invitò (Annibale, n.d.a.) all’amicizia e all’alleanza: non avendo essi ascoltato, cinse d’assedio la più importante delle loro città e in tre giorni la espugnò. Massacrando quanti gli si erano opposti, ispirò un tale terrore nelle tribù barbariche delle vicinanze che immediatamente esse si presentarono tutte a fare offerta di resa”. Così Polibio (206 – 125 a.C.), nelle Storie (III, 60), liquida lo scontro con i Taurini, senza offrire alcuna indicazione per una più nitida definizione topografica della vicenda. Non meno sintetico appare Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.), che ci offre una testimonianza storicamente ambigua, dovuta forse alla sua scarsa conoscenza del territorio pedemontano.
Infatti, nella Storia di Roma, lo storico latino specifica che quando il console romano Publio Cornelio “giunse a Piacenza, Annibale aveva già mosso il campo e aveva espugnato con la forza la sola città dei Taurini, capitale di quel popolo che non aveva voluto accoglierlo di buon grado in amicizia e avrebbe attirato a sé non solo con la paura, ma anche con la simpatia i Galli che abitavano vicino al Po, se il console, arrivato all’improvviso, non li avesse colti di sorpresa mentre aspettavano il momento opportuno per passare ai Cartaginesi” (XXI, 39).
Plinio il Vecchio (23 – 79), definisce Torino “di antica stirpe ligure” (Storia Naturale, III, 123) secondo una tradizione confermata da altri storici dell’antichità e ripresa in più occasioni: infatti, anche per Tito Livio (V, 34) i Taurini erano di stirpe ligure. Ma in seguito li considera “Semigalli”: “Taurini Semigalli proxima gens erat in Italiam degresso” (XXI, 38,5), tendendo a indicare la sovrapposizione celtica al sostrato ligure.
Ancora Tito Livio, descrivendo la calata dei Galli di Belloveso in Italia, specifica che “passarono attraverso il territorio dei Taurini e le Alpi della valle della Dora”; l’episodio è però descritto con molte incongruenze e non sempre risulta affidabile sul piano storico-geografico.
È più lineare invece la testimonianza di Strabone (60 a.C. – 21/24 d.C.): “nel massiccio alpino il versante italico opposto alle alture che dominano il confluente dell’Isère e del Rodano e che sono occupate dai Medulli, è abitato dai Taurini, popolo ligure, e da altri liguri, cui appartiene anche il territorio detto di Donno e di Cozio” (Geografia V, 6, 6-7).
Va osservato che le notizie sui Taurini, spesso confusi con i Taurisci, sono frammentarie e contraddittorie già nelle fonti più antiche e di fatto lasciano molti dubbi sulla loro attendibilità.
Sulla confusione Taurini/Taurisci (è emblematica l’indicazione di Dione Cassio (155 –235), che in Storia Romana (XLIX, 34,2) ricorda la scarsa sollecitudine di “Salassi, Taurisci, Viburni e Lapidi” nel pagare i tributi a Roma.
Ai tempi di Augusto la terra dei Taurini confinava a ovest con quella dei Segusini e con gli stanziamenti delle altre tribù di re Cozio, distribuite tra il Rocciamelone e il Monviso; la loro frontiera probabilmente era posta all’altezza della stazione Ad Fines (area dell’attuale Avigliana).
Gli storici moderni, vista la mancanza di fonti certe, non hanno dedicato molta attenzione ai Taurini, lasciando che l’indagine rimanesse in sospensione tra il mito e la realtà: “benché non esperti di strategia militare, i Taurini avevano fondato il loro nuovo villaggio in una posizione non facilmente vulnerabile. Approfittando del fatto che il Po e la Dora si univano (e la cosa avveniva fino a qualche secolo fa) in una acquitrinosa bassura, eressero le loro case sull’orlo quasi della terraferma, onde avere un fianco del villaggio protetto dalla barriera naturale dell’inaccessibile avvallamento paludoso; sicché Taurasia dominava tale luogo come dall’alto di un terrazzo. Restando privi di difesa naturale i lati a occidente e a mezzogiorno del villaggio; e questi fianchi scoperti vennero muniti di ancor più solide mura” (G. Colli, Torino da leggere, Torino 1980, pag. 15).
Per altri la città “era stata costruita nella regione della Pellerina e di Borgo San Donato e sovrastava quella pianura che assai più tardi sarà chiamata Vanchiglia, Valdocco, che era il bosco dei Longobardi, etc., pianura la quale soventissimo si trasformava in acquitrino. Vitale anch’esso alla difesa” (E. Gianieri, Storia di Torino, Torino 1970, pag. 26).
Comunque quella dei Taurini non poteva certo dirsi propriamente una città, “non c’era neppure uno dei tanti oppiai o castelli o torri in cui i Liguri Alpini e Marittimi cercarono rifugio; piuttosto è da credersi che fosse il centro o almeno uno dei centri più ragguardevoli della vasta regione dei Taurini. Ma né la fortezza naturale e preparata del luogo né il valore degli abitanti poterono impedire che Annibale la prendesse dopo tre giorni di assedio” (F. Rondolino, 1869, pag. 128).
Inoltre, nello stesso periodo in cui si svolse la battaglia con Annibale, abbiamo visto che i Taurini erano in lotta con gli Insubri (Polibio, III, 60; Tito Livio, XXI, 39): di è ipotizzato che gli Insubri fossero penetrati nel territorio dei Taurini istigati da Annibale, prima ancora che, con il suo esercito, superasse la catena alpina.
Secondo il Rondolino si potrebbe anche considerare che “i Taurini, come altri Liguri del Cispado e del Traspaio, parteggiavano per Roma in odio ai Galli, non potendo ammettere che i Taurini fossero Galli o Semigalli e che, come tali, avessero già prima di allora favorito Annibale o si disponessero a farlo. Il contrario appare invece chiaramente da quanto ne seguì. Annibale non ravvisò dapprima opportuno disporre l’esercito contro i Taurini ed in favore degli Insubri, perché sentiva ancora il danno dei passati disagi e il sollievo che provava essendo passato dalla carestia all’abbondanza e dagli stenti ad un vivere più mansueto ed agiato. Poscia, non volendosi lasciare alle spalle una gente di dubbia fede, sperando mutare in alleanza la neutralità o l’avversione dei Taurini, li invitò a venire volontariamente con lui in amicizia e colleganza, ma n’ebbe un rifiuto o una risposta poco benigna” (F. Rondolino, Storia di Torino antica, Torino 1869, pag. 127).
Al di là delle tante ipotesi, possiamo pensare che i Taurini sperassero di resistere ai Cartaginesi con il contributo provvidenziale delle milizie romane di guardia presso il Ticino, ma l’aiuto non giunse mai…
Si dice che dopo tre giorni la battaglia finì, ma su questo periodo lo storico non riesce ad individuare alcuna fonte certa. Al termine degli scontri della coraggiosa città forse restarono solo ceneri e macerie.
Dopo il plateale esempio, nessuna popolazione locale ebbe il coraggio di opporsi al passaggio di Annibale: anzi, una moltitudine di genti era “desiderosa di unirsi ai Cartaginesi” (Polibio, III, 60).
La questione storica e anche etnica relativa ai Taurini ha appassionato gli studiosi del passato: alcuni giunsero a interpretazioni che è difficile confermare sulla scorta delle fonti note; un esempio ci giunge dal Stanislao Bardetti (1688 – 1767), che nella sua opera De’ primi abitatori dell’Italia (1769) e poi in Della lingua de’ primi abitatori dell’Italia (1772), entrambe pubblicate postume, indica i taurini come i primi abitanti d’Italia e Torino un’antichissima città celtica.
Il Bardetti riprendeva le tesi di Emanuele Thesauro (1591 – 1675), che nella sua Historia di Torino
ipotizzava la fondazione di Torino da un “re egizio” di nome Fetonte (che troviamo indicato anche come Eridano), molto tempo prima della fondazione di Roma nel 3500 a.C. !
L’incipit del legame tra Egitto e Torino è però opera del barone Filiberto Pingone (1525 – 1582), che in apertura del suo volume Augusta Taurinorum (Philiberti Pingonii Sabaudi Augusta Taurinorum, Taurini, apud haeredes Nicolai Bevilaquae MDLXXVII), poneva nel 1529 a.C. la fondazione di numerose colonie italiane presso i liguri a opera di Fetonte.
Il mito classico narra che Fetonte rubò il carro solare al padre (il Sole), ma perse il controllo e finì nell’Eridano – Po dove annegò.
Il Pingone aggiungeva che l’Italia doveva il suo nome Appennino al toro Api e la prima città divinizzata dai tori, fu detta Taurina.
Le illazioni spesso si basavano su personalissime interpretazioni delle fonti storico – archeologiche, determinando notevoli confusioni che, come è noto, sono ancora oggi diffuse e radicate nella mitologia metropolitana.
I ritrovamenti casuali di reperti isiaci in area torinese furono poi l’occasione per confermare l’identità egizia, alimentando credenze e tradizioni di origine classica, ma rivestite di allegorie esoteriche.
Un insospettabile, Giovanni Boccaccio (1313 – 1375) aveva già diffuso la leggenda con il solito Fetonte/Eridano nell’opera Genealogie deorum gentilium.