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sabato, Giugno 21, 2025

    Canoni e fughe in tutte le salse

    Ricordo che quand’ero piccola, intendo molto piccola, apprezzavo estremamente il ritmo, qualsiasi musica ritmata mi mandava in visibilio (ad esempio il celeberrimo “In the mood” di Glenn Miller, un boogie-woogie antenato del rock; oppure, sul piano nostrano, una canzonetta intitolata “Basta con le fughe”). Circa quest’ultima, chiesi più volte a mamma e a papà cosa fossero quelle benedette “fughe”, ricevendo spiegazioni approssimative e abborracciate, per cui in un angolo della mente mi rimase un senso arcano di mistero.
    Col passare degli anni il mio interesse per la musica mi avrebbe chiarito le idee; tuttavia so che – come successe allora a me – anche oggi possono esserci molte persone ignare su cosa siano “le fughe”.
    Per saperne di più dobbiamo risalire ad almeno sette/otto secoli fa, quando il nome “cánone” (dal greco kanon, legge o regola) veniva usato per definire il modo di trattare le imitazioni sovrapposte a una melodia. Il sistema nacque fra Italia e Francia, e anche se il primo canone di cui si ha storicamente notizia è l’inglese “Sumer is icumen in” del XIII secolo, il canone più semplice ed elementare resta il famoso “Fra’ Martino campanaro” (“Frère Jacques”, in francese), dove dove una voce insegue l’altra, e può farlo diventare a due, a tre, a quattro voci ecc. (fino a toccare gli incredibili eccessi fiamminghi di 12, 15 o 20 voci!). “Fra’ Martino campanaro” è rimasto talmente impresso nel nostro inconscio collettivo da venire ancora utilizzato all’alba del XX secolo da Gustav Mahler in una rielaborazione come marcia funebre nel terzo tempo della sua Prima Sinfonia. Un altro genere di canone, detto “la caccia”, con due voci a canone e una terza strumentale, fu molto in auge e raggiunse, attraverso i vari anditi della polifonia imitativa, gradi di difficoltà sempre più complessi.
    Con l’inizio del secolo XV tali “canoni” cominciarono a essere composti anche al di fuori dei brani polifonici sacri e profani a cui erano collegati, avevano cioè vita propria; in questi casi venivano denominati “fughe”. Definizione che riguardò inizialmente il solo campo strumentale, poi anche quello vocale. Ma bisogna attendere fino alla seconda metà del ‘600 perché le “fughe” inizino a subire delle vere e proprie regolamentazioni strutturali e vengano articolate in tre momenti che, semplificando terribilmente, chiamerò: esposizione tematica / svolgimento / stretta. Tale procedura mise in rilievo, anzi inventò, una scrittura di tipo contrappuntistico che si avvantaggiava delle teorie sul temperamento tonale che venivano stabilite proprio in quegli anni. Il suo scrupoloso monotematismo, le sue regole specifiche molto strette, il rigido gioco di soggetto e controsoggetto, furono la base della “forma musicale per antonomasia”, come la si definisce storicamente.
    Quindi fu solo nella prima metà del ‘700, cioè nel massimo splendore del periodo barocco, che la fuga si stabilizzò diventando ciò che tutti noi, in un modo o nell’altro, pensiamo che sia; e di conseguenza Johann Sebastian Bach (1685-1750), il più grande costruttore di fughe mai esistito, il musicista che siamo abituati a considerare il papà della fuga, in realtà si occupava di una forma recente, recentissima, una forma che ai nostri giorni diremmo “moderna”.
    “Canoni e fughe, fughe e canoni in tutte le salse!”, gemeva Giuseppe Verdi, ricordando ancora, cinquant’anni dopo, i suoi studi presso il maestro Lavigna severissimo contrappuntista. Di fatto il genere fuga fu sempre fra i più difficili e, se vogliamo, fra i più aridi da digerire (il che giustifica la canzonetta “Basta con le fughe” da me citata all’inizio)… anche se senza una profonda conoscenza della fuga nessun grande compositore poté mai dirsi tale.
    Mozart stesso, che visse intensamente lo stile detto “galante” del periodo in cui visse e che di tutto ciò che lo precedeva aveva un’idea alquanto confusa, si innamorò pazzamente delle fughe, al punto che scrivendo alla sorella Nannerl raccontò come sua moglie Constanze “ora non vuol sentire altro che fughe” e come lo sgridasse rinfacciandogli “che non aveva voglia di scrivere ciò che nella musica è la cosa più artistica e più bella”. Lui l’accontentò, e non soltanto col superbo Adagio e Fuga K546, ma con la più stupefacente creazione che esista nel genere, il colossale “Molto Allegro” con cui termina la Sinfonia K551, detta, forse per questo, “Jupiter”: esaltando lo sviluppo di cinque temi diversi in fuga seppe unire alla perizia contrappuntistica bachiana una mirabile originalissima costruzione che tocca i vertici dello stile classico, e quindi vertici della musica tutt’intera.
    Un genere collaterale fu invece il “fugato”, che della fuga utilizzò semplicemente il sistema imitativo, senza vincoli e con la massima libertà. Chiunque di noi abbia anche solo una minima esperienza di musica sinfonica, sa che il “fugato” si intrufola un po’ dappertutto ed è sempre una sferzata trascinante e liberatoria. In questo senso ebbe una fortuna enorme, nessun compositore evitò mai di cimentarvisi… a partire da quel vero e proprio “re dei fugati” che fu Beethoven, attraverso tutto l’800, fino a giungere inaspettatamente al 1904 con “Madama Butterfly” di Puccini che inizia con un sorprendente fugato.

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    Luisa Forlano
    Luisa Forlano
    Luisa Camilla Forlano è nata a Boscomarengo, in provincia di Alessandria, e vive a Torino. Oltre all’amore per la Musica coltiva assiduamente quello per la Storia, in particolare per l’antichità classica, ma anche per i secoli a noi più vicini, quelli della rinascita della ragione. Ed è stato nel desiderio di far rivivere alcuni momenti storici cruciali che si è affacciata al mondo della narrativa: nel 2007 col suo primo romanzo “Un punto fra due eternità”, un inquietante amore ai tempi del Re Sole; e poi con “Come spie degli dèi” (2010), che conserva un aggancio ideale col precedente in quanto mette in scena le vicende dei lontani discendenti del protagonista del primo romanzo. In entrambe le narrazioni la scrupolosa ricostruzione storica costituisce il fil rouge da cui si dipanano appassionanti vicende umane, fra loro differenti, ma fortemente radicate nella realtà storica del momento.

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